venerdì 10 novembre 2023

Golem porta Cinesi

Commenti molto personali e soggettivi incentrati sulle opere cinematografiche e televisive appartenenti al Meraviglioso Cinematographic Universe.


James Gunn: I Guardiani della Galassia vol.2

Simpatico, anche più del primo. 

Stallone e Ving Rhames esigono uno spin-off.

(2017)



Jon Watts: Spider-Man. Homecoming

Non gli davo due cents, ergo sorpresa.
Davvero bellino e spidermanoso, un 2.0 fatto come si deve.
Sì, l'amichevole Ragno di quartiere! Così, dev'essere!
Che bella la trasferta a Uoscinton!

(2017)



Taika Waititi: Thor. Ragnarok

Sulla falsariga dei Guardiani, ma un po' meno sgangherato (solo un po').
In realtà - come i Guardiani - funziona proprio perché è sgangherato, passa dall'ottimo al deprecabile A/R, ma tanto a noi interessa solo l'ottimo.
Come diceva il Genio-Trilli introducendo Aladdin e il re dei ladri: che colori!
La trama prende la sinossi del ciclo del falso Ragnarok di Roy Thomas e la fantasyenza di Starlin, ovvero le marvelate che preferisco, e le frulla, poi butta via la polpa, però il succo è rinfrescante.
Grande regia: tutti dicono per le scene d'azione, sì, anche, ma soprattutto per le statiche, per la ricostruzione kitsch, per le riprese stile peplum. Mi ha ricordato Kong: Skull Island, il film più divertente del 2017.
Questo, Homecoming e Ant-Man sono gli unici che, appena finiti, ho pensato di poterli riguardare anche subito.  
Nota del 2022: ma non l'ho fatto.

(2017)



Ryan Coogler: Black Panther

Film di moda che è piaciuto a tutti. Quindi mi ha infastidito.
Non è che sia brutto: è molto archetipico e proppiano.
Tuttavia i fighetti (e qui lo sono tutti) mi irritano. La sorella, poi, l'avrei ammazzata. 
Il protagonista è il più normale, alla fine.
La visione piatta degli americani, secondo cui tutti sono come loro, è davvero irritante. Questi non sono africani, sono afroamericani. 
Lo "space invaders" con Freeman alla console? Mah. 
Serkis? Mah. Ma dai, Klaw mica può essere morto.

(2018)



Anthony e Joe Russo: Avengers. Infinity War

Stacco troppo marcato da Ragnarok: doveva essere più graduale.
Attori un po' svogliati all'inizio, troppe faccette spiritose trattenute. 
Battute stupide quasi tutte mal amalgamate col resto.
Bene l'interazione tra i personaggi, nel complesso, e i vari sotto-gruppi.
Molte buone intenzioni: l'epopea-tour galattico, i micromondi dei vari personaggi, la storiona suprema; il tutto sembra comunque un po' compresso.
Bene i combattimenti, con Thor, Strange e Stark che primeggiano. 
Vabbé, comunque si sapeva come finiva. Cioè, come finisce.

(2018)



Peyton Reed: Ant-Man and the Wasp

Non mi sorprende che molti siano delusi: è un bel film.
Non era affatto scontato, vista la retrocessione di Lang a Avenger di riserva, prima, e a non Avenger, poi. Non mi è ancora chiaro se a Rudd questo stia bene o no: ma, tutto sommato, possiamo archiviare questa pratica nell'archivio dei cazzi suoi.
Dicevo che è un film divertente, ritmato, e sfacciatamente, disgustosamente per famiglie, alla faccia di tutte le parole brutte e di tutte le persone malvagie. Tié, pigliatevi questo, cattivoni!
Dicevo pure che questo e quello prima sono i capolavori del genere "stronzatone buonone Delladisni", che è uno dei miei generi preferiti. Pensate se quella specie di cattiva fosse stata Vanessa Hudgens: sarebbe stato il mio film preferito di tutti i tempi.
E, suvvia, ditelo che avete amato l'inutilità di Fishburne. 
Dò un abbraccione a questo gioiellino di filmetto. Ciao, amichetto!! A presto!

(2018)



Anna Boden e Ryan Fleck: Captain Marvel

Visto con due anni di ritardo, ho potuto assaporare tutto il piacere derivato dall'estrazione di una spina dal fianco. Due anni passati con questo tarlo di dover vedere "Cappten Marvel" non li consiglierei al mio peggior nemico (anche perché prima dovrei capire qual è, tra i tanti).
Non è il miglior film dell'MCU, e non lo dico per i due anni di hype, ma perché i siparietti per bambini mi sono parsi trancianti e perché ci ho visto troppi sfondi riempiti con scarabocchi colorati stile "disegni dello spazio che non sono foto vere". Il tentativo di rifarsi ai Guardiani mi è sembrato un po' tipo fanboy imitatore. Ma non voglio dire che il film mi ha fatto schifo: la protagonista è una BELLA FIGA e mi ha fatto piacere poterla guardare per due ore senza timore di essere accusato di molestie. S.L.J. in una delle interpretazioni meno brillanti della carriera è stato comunque un gigante. E Giud Lou è migliorato veramente in modo impressionante, gli ha fatto bene fare il Papa. E sono contento non sia morto. La trama, ad averla vista due anni fa, mi avrebbe piacevolmente connesso alla S5 di Agents of Shield ed entrambi i prodotti ne avrebbero tratto giovamento (anche se non ho capito i Kree bianchi; come si suol dire: "non sono razzista, ma"); ma i due anni sono trascorsi (forse ho accennato alla cosa qualche riga fa), così gli unici effetti sostanziali provocati dai camei di questo Coulson macchietta sono stati il ricordarmi l'esistenza di una S6 e di una S7 di AoS da me mai viste e la breve saudade per un periodo in cui seguire Agents of Shield era un'attività non del tutto priva di senso. Abbastanza deludente la Bening, in quanto troppo vecchia per poter essere davvero la Bening. Davvero bello, inebriante, invece, sapere che è proprio la ditta del castello incantato e dell'apprendista stregone a possedere il segreto del ringiovanimento degli attori e della resuscitazione dei morti. Walt lo avrebbe voluto. E gli Skrull pupazzosi? Disney all'ennesima potenza.

(2021)



Anthony e Joe Russo: Avengers. Endgame

Beh, sì, dai. 
Fino alla raccolta delle gemme è esattamente ciò che speravamo di vedere fin dall'inizio, o almeno ciò che speravo io.
Delle battaglie non me ne è mai fregato niente, pure questa non è che mi abbia esaltato, ma comunque è stata più vivace di altre. Il cavallo alato. 
Epilogo buono, ruffiano il giusto. Mi è piaciuto il finale di Cap. Povera piccina, però. 
Difetto? Quelli scomparsi alla fine di IW potevano pure non tornare, stavamo quasi meglio senza (quasi?).
Altro difetto? La scena delle donne Marvel. Sigh. E naturalmente a BELLA FIGA hanno cambiato acconciatura per farla sembrare più uoma. 
Pregio? Tutti quegli attoroni tutti assieme. Questa è memoria storica, sono foto che riguarderemo in futuro con nostalgia.
Altro pregio? Gli Avengers originali. (Sorvoliamo sulla cosa di Thor perché gestita comunque benino). 
Ma Visione? Come dicevo, non frega un cazzo a nessuno di quelli scomparsi.
Il film di BW che senso avrà? Boh, tanto non lo pago.
Che figata Agent Carter. Ma dov'è Agents of Shield? Lacuna immensa.
A parte questo, io non ho vissuto l'epopea di Harry Potter e nemmeno quella di LOTR, che apprezzo intellettualmente ma non emotivamente. E coi Pirati sto a metà, c'è del SI e c'è del NO. Non dico l'MCU nella sua interezza, perché confesso di trovarlo già un po' invecchiato, ma parte di questo film potrebbe diventare un cult del presente scrivente.
Nota del 2022: E invece no.

(2021)



Jon Watts: Spiderman: Far from home

Visto zompando Endgame e quello prima. Eresia? Beh, toglietemi i vicini di casa e torno volentieri ad essere un buon nerd. 
Ma non mi sono perso niente: qui la fine degli Avengers (o quello che è) ha il sapore di "finalmente ce li siamo levati dalle palle". 
E invece no, perché è tutto basato sull'eredità di Stark e sui suoi ammennicoli, e i cattivi sono gli scienziati di Stark. Adorabile.
E niente, nonostante sia tutto diverso, questi hanno proprio azzeccato il respiro, i personaggi e il tono dei primi fumetti di Lee, pensati per un pubblico di liceali. E' proprio l'Uomo Ragno, questo.
La cosa migliore del primo film (la gita) viene amplificata alla massima potenza, con tutti gli stereotipi possibili, ma senza perderci tempo più di tanto. Mysterio è buffo. Il dramma dell'adolescente prossimo all'età adulta si avverte. E' tutto bello, tranne la battagliona finale, troppo lunga e girata come se il regista fosse Bay.
Meno male che Fury c'è. Ah no. Lol.
Comunque si capiva che Maria Hill era strana.
Due scene post credits ambo geniali.

(2019)



Cate Shortland: Black Widow

Gran bel thriller. Magari usa-e-getta, chissà se in fase di re-visione passa l'e-diting. Primi 45 minuti è tutta una corsa, appena ci si ferma lo si nota tantissimo. Da lì per riprendere il passo ci mette un pochino, ma neanche tanto, e poi di nuovo un'altra corsa fino alla fine. 
Titoli di testa davvero notevoli, da rivedere subito. Sul serio è la figlia della Jovovich, quella? 
Storia straziante il giusto, per fortuna Onofrio Gelsomino non dice poi così tante sciocchezze. Weisz invecchiatuccia; Pugh ok, la rivedrò volentieri; Kurylenko in uno dei suoi ruoli migliori, l'assente. 
E' una origin story (dell'aereo e della tinta), tutto sommato si sa già tutto ancora prima di iniziare, ma lo show è ben confezionato e attira l'occhio. Apprezzabile il non aver ecceduto coi parallelismi social (il cattivo è Weinstein). Che ridere Ray Winstone, non ricordo mai che faccia ha.
Film nato sfigato (in linea col personaggio), ma non merita la gogna. 

(2021)



AAVV: WandaVision

Lo metto tra i film perché è giusto così.
Allora, c'è il bellissimo commento del Sollazzo, e potrebbe bastare.
Ci sono anche i commenti negativi, in giro, e potrebbero bastare anch'essi.
E in effetti tutto questo è sufficiente. 
Ci sono il Bene e il Male, il pregio e il difetto, il Vision e la Uanda.
Dico solo che quattro episodi per portare Monica Rembo a dire "è stata Uanda" mi sono parsi troppini. Ma dico anche che, alla fine, dopo altri cinque episodi, ero dispiaciuto che la storia si fosse già conclusa.
Sì, brava Olsen, ma che bravo Bettany. Sempre piaciuto sebbene poco valorizzato.
Anche Hayn, finalmente in un ruolo a lei consono.
Peters è epocale, è un nuovo precedente (vedi casting di Spiderman 3), è come Tarkin e Leia di Rogue One (o Downey Jr. di Civil War).
Mitico Woo, un po' meno Darcy con quel look ridicolo. Monica Culeau costantemente inutile. Il loro ritrovo è un posticcio raduno degli sfigati, tipo Area 15 - come gli ermarginati dai grupponi a scuola, che poi fondano i forum - ma i fumetti sono così quindi è ok. 
E alla fine pure Agatha arriva ad avere + o  il ruolo che aveva nei fumetti, è la sua origin story, e quindi va bene.
Il difetto della Olsen è che a volte sembra la nuova Johansson, altre volte la terza sorella Olsen. 
Gli effetti speciali idem, a volte sono notevoli, altre sono scarabocchi al pc che fluttuano. 
Riassumendo, siamo tutti bipolari, Simonelli e no tra zuydcoote e bray-dunes. Senza televisione di che parliamo? Io non la guardo, eppure eccomi qua.
Captain Marvel mi ha già rotto, è quello che mi interessa meno.

(2021)



AAVV: The Falcon and the Winter Soldier

O, come mi piace chiamarlo, De Franco en de Sirpen Surfen.
Allora, come diceva quello, "la verità a volte non coincide con la giustizia", o qualcosa del genere. Per cui diciamolo subito: questo E' un baddi muvi. Non è che sembrava un baddi muvi ma invece è profondo; no, E' un baddi muvi. I baddi muvis non sono tutti beng beng sciot mi daun, sono storie d'amore e guerra con le battutine. Tolstoj con le battutine. Woody Allen. Sono profondi!
Sgomberato il campo (AH AH AH) dagli equivoci, possiamo dire che questo è un prodotto Disney al 100%, "e sia detto con tu-tutto il dovuto rispetto". 
Dunque, che senso ha prendersela perché ci sono delle facilonate e delle superficialità? E' un baddi muvi, i baddi muvis sono faciloni e superficiali, ci piacciono per questo (che poi, voglio dire, l'evasione: ma le minchiate di Alias ve le ricordate? Eppure ci piace). Che senso ha prendersela perché Capitan America, negro peraltro, ci dice come dobbiamo vivere? Che altro dovrebbe fare un Capitan America, negro peraltro, se non farci la morale? E perché prendersela se una serie tv di un universo cinetelevisivo più ampio non spiega tutto-tutto-tutto subito-subito-subito? Che altro dovrebbe fare, un universo cinetelevisivo ampio? 
Ognuno vede quel che vuole vedere, e qui nessuno vuole vedere che ci sono due bei personaggi, per nulla originali, ma razionali e pragmatici, maturi oserei quasi dire, che compiono due percorsi paralleli e arrivano a incrociarsi (con tutto il sotteso lgbt, che non potevano dirlo esplicitamente pure quello, ma tutte quelle pacche e quegli abbracci sono significativi, il tutto coerentemente con l'essere un baddi muvi). Non c'è "Disney che imita i trampiani contro Disney che ci dice come dobbiamo pensarla". C'è una storia, al 99,99% vista e stravista (o al 100%, se contiamo District 9 per il campo profughi globale), ma funzionale a quello che la storia vuole raccontare e al paratesto, una storia che va da un qui a un lì, e soprattutto c'è quel che si cerca in un bel baddi muvi, cioè una coppia di maschioni simpatica e cool, con cui empatizzare. O guardavamo Bruce Willis e Danny Glover solo perché sparavano? Non erano forse tizi comuni, con dei patemi, che affrontavano col sorriso minacce vere come la corruzione e l'inflazione? E non li consideravamo per questo dei veri supereroi? Personalmente ho apprezzato davvero tanto il primo episodio, e gli ultimi venti minuti dell'ultimo li ho subito riguardati, cosa che non facevo da tempo immane.
Intendiamoci, non è che io sia interamente d'accordo con Disney Senza Walt ("premetto che non sono fascista, ma"), è un'idiozia additare a campo di concentramento qualunque cortile con le sbarre in cui far dormire gente che non sa dove andare, e qui, in fondo, non sappiamo esattamente cosa faccia il GRC (geniale dare al senatore la voce di Mete, per la vaga somiglianza mimica dell'attore con Patrice Luchini), ci basiamo sul fatto che i poveracci ci dicano di essere tali ("ma poi hanno il cellulare"), è come se Falcon avesse sgridato Minniti anziché Renzi e i beduini guerrafondai. Tuttavia, nel complesso, il discorso di Capcon è bello e profondamente disneyano e mi ha coinvolto. Ma questo non sarebbe accaduto se Mackie non fosse stato il figo che è, e non mi riferisco solo al costume nuovo e alle piroette molto ben coreografate nella battaglia finale, ma in generale, nell'essere un tizio qualunque che non fa nulla è un gigante. Di più: è un negro come dovrebbero essere (e qui emergono tutto il razzismo mio e della Disney Senza Walt). Bradley è un bifolco e dice che "è speciale". No, al contrario, è "solo" un uomo "medio ma giusto", come Rogers, non geniale ma nemmeno idiota, emotivo ma non piangina, leggero ma non ridicolo, serio ma non tuttologo, memore ma non rancoroso. Guardatelo in faccia, ma bene però: come fate a non fidarvi? E' assolutamente normale che sia il nuovo Cap, non serve che ce lo dicano. Più immedesimazione di così. A me piace un sacco, è un grande attore (naturalmente, ora che l'ho scritto farà Un giorno da leoni 4). Per par condicio, anche Stan mi è piaciuto molto, è migliorato tantissimo; a posteriori, forse era bravo anche prima, quando il personaggio era un robot. Ma non solo: la felice abbondanza di primi piani qualcuno l'ha notata? Qualcuno ha notato che i personaggi sono BRUTTI? Mackie c'ha i denti storti, Stan non sa ridere, Bruhl c'ha il piricozzo, Russell fa proprio schifo, gli si vedono pure i succhiotti (nel suo caso, gli autori sono stati bravi a non renderlo una macchietta lombrosiana), l'irlandesina ha più lentiggini che pori. Anche questo contribuisce all'immedesimazione. Il bravo regista, resosi conto che il budget gli permetteva al massimo di spacciare Praga per Riga (Priga?), si è adattato e ha trovato la chiave giusta per rendere credibile ciò che avrebbe potuto facilmente non esserlo.  
Insomma, questa serie ha sfornato anche un nuovo meme epocale, di cosa ci si lamenta? Non sono negro, ma vi dico io di cosa dovete lamentarvi. Con questa serie appare ancora più marcato ed evidente il disprezzo che Disney Senza Walt prova per il medium fumetto, che evidentemente considera adatto soltanto al pubblico di età prescolare. Perché una storia di questo tipo, disneyana al 100%, nei fumetti disneyani odierni è totalmente impensabile. Come sarebbe stato possibile tutto il climax che conduce al discorso libera(l)torio se tutti, prima, anziché picchiarsi a sangue e uccidersi, si fossero additati e fotografati? 
Questo deve farci arrabbiare. Uno sceneggiatore con le mani legate e infilzato di paletti sì che è un bovero negro. La "casa di carta" da valorizzare è un'altra.

(2021)




AAVV: Loki S1

Bastaaa. BASTAAA!! LA FINIAMO O NO??? Scusate, tutte le mie varianti giuocano a "Loki" ed è tutto un variar di schiamazzi. Tranne quella che riguarda in loop i minuti da 38 a 43 del sesto episodio. Sempre da sola, non esce mai. Davvero singolare.  
Insomma, di bene in meglio. Che è, ogni nuovo tassello dell'MCU deve essere migliore di quello prima? 
Eppure è così. Dopo gli esercizi di stile televisivi e la morale liberal, ecco Epcot e i corti. Io, veramente, boh, non so più che dire. La prossima è una serie animata. Come minimo sarà Fantasia '21.
E il genio di sdoganare l'ellegibitìplàs, facendo contenti tutti, ma raccontando di uno che si innamora di sé stesso (il massimo dell'egocentrismo), ma sé stesso è una Principessa Disney (bionda e caucasica), ma cattiva.  
Se le due serie precedenti erano 100% Disney, questa che si conclude nel Castello Incantato e ch'a pure Walt nella sigla, cos'è?
E va bene, tutto il calderone di Dagda: Dottor Vù, Guerre Stellari Ribelli, Jacob e MiB, il set Lego, la scrittura mista.
Ma rendiamoci conto che, nei miei vecchi giuochi, c'era un cowboy del West, cattivissimo, che poi finiva per collaborare coi Time Cruisers, e allora finiva al tempo dei pirati, poi nel medioevo, e pian piano diventava buono, e aiutava Max a salvare il prof rimasto nella piega quantica. E che dire di quel cronopirata del futuro che doveva allearsi con l'aliena supernova per rintracciare nel tunnel spazio-tempo le varianti supereroiche nipotesche (SuperQui, QuoMask e Quaradan) nelle mie post stories (storie serializzate sui post it)? Non parliamo, poi, dei guazzabugli che facevo con le saghe fantasy topolinesche, ma anche lì era tutto un rimescolare ed un evolvere. 
Cosa c'entra il Dio nordico dell'inganno con i crononauti burocrati? Prima nulla, adesso tutto. Non è arrapante? Quando alla fine c'è quel gioco di synth (blip blop blup) sopra il font di Loki in continua mutazione non vi siete sentiti gioiosamente multiversali? Olonomici? Bimbi sperduti? Non avete deciso di perdervi nel mondo anche se sprofondo e di lasciare che le cose vi portino altrove non importa dove? Non avete visto anche voi Masantonio, la sera prima?
Insomma, potevo fermarmi al primo rigo e sarei stato già esaustivo. 
Ma ci tenevo a far sapere che sono uscito pazzo per la TVA retrò e per i meravigliosi temini della Holt (rinnovo la domanda: Williams, non ti vergogni?), tanto da rivedermi 6 volte consecutive il finale. Che bravo Hiddleston ad aver prodotto tutto questo. Lungimirante.
Ah sì, il casting. Di nuovo. Rispieghiamolo. Quando questi fanno metanarrativa, la fanno a 360°, cioè fanno anche metacinema, cioè non scelgono gli attori a caso, e lo si capisce da come riescono a far brillare tutti. Il Wilson Mobius non è il "comico che fa una cosa seria", è Wilson che fa Wilson come lo ha sempre fatto, nei film più stupidi come in quelli più ricercati, e coerentemente con gli eventi più salienti della sua vita privata. Il cattivo, Colui Che Ride Per Ultimo, è il tizio di Lovecraft Country, che infatti dà il via al Multiverse of Madness. E così via. E' una cosa che oggigiorno fanno un po' tutti, ma Disney è stata la prima, e lo fa meglio. E sapete perché lo fa meglio? Perché è razzista, sessista, classista, lombrosiana, reazionaria. Un orologio pazzo, che sta meglio in un pozzo che sul piedistallo.  
Resta solo da chiedersi come sia possibile che, nei fumetti originali, tutte queste meraviglie siano annacquate in multilioni di tavole, di cui molte soporifere. 

(2021)



AAVV: What If

Lo metto qua, perché è una serie tv a tutti gli effetti, e in continuity, cosa che non ci ha sorpresi affatto. Non siamo tra quelli che gridano al capolavoro e alla meraviglia, alla fine la riteniamo la cosa meno interessante dell'EmmeCiU, come da pregiudizio. Diciamo che, in soldoni, "Cappten Carter" è stata la cosa migliore, e, vista la scena post credits, se ne sono accorti pure gli autori. Uatu si era già visto in uno dei GoG, perché niuno rammentollo? Buon personaggio, cmq, sebbene un poco stolto. Gli episodi migliori quelli di Killmonger e Strange, mentre Party Thor è una piattola. Trame così così, regia molto buona invece. Deludente l'assenza di alcune voci originali e di un paio di doppiatori italiani, cosa molto da telefilm vecchio stile (almeno che non vogliano proprio sostituire Buglioni, che dovrebbe averci un'età). 

(2021)



Destin Daniel Cretton: Shang Chi e la leggenda dei Dieci Anelli

Beh, ormai siamo in piena quarta ondata, o Fase 4, che dir si voglia. Nel 2008 c'avevamo vent'anni, ora viaggiamo verso i quaranta. Insomma, le cose - con l'eccezione dell'Italia - si evolvono, il tempo passa, il nuovo subentra al vecchio, il peggio al meglio. Ecco, allora, che i film MCU ce li dobbiamo guardare sul telefonino, di notte, con le cuffie, a puntate, in posizione scomoda, sul divano letto. Ed ecco che l'MCU, per irriderci, esplora nuove strade, con successo, al contrario di noi. Cosa possiamo dire? La prima metà del film ci ha sorpresi, in positivo (ops, meglio non usare questa espressione). Un classico film orientale moderno, all'occidentale, col protagonista monocorde e la ragazza buffa, il misticismo chimichanga, la mitologia cartoon, l'urban fantasy. Il tutto, tra citazioni e ritorni gradevolmente improbabili, ci ha condotti ad un chiasmo con un suo fascino proibito. Lo diciamo? Quando abbiamo ritrovato Sir Benny Hill Kingsley (gigantesco) e con lui abbiamo raggiunto il mondo dei Pokemon, con tanto di Ninetales di Alola, al nostro neurone è scappato un "Ooohh" silenzioso. La seconda metà, invece, ci ha ricondotti un po' là dove eravamo già stati prima, dentro la frontiera del già visto, tra mostroni ringhianti fatti al compiute e battaglione allungate con l'acqua(fina). Senza eccessivi scadimenti, sia chiaro, ma con quella patina di noia che nemmeno tutte 'ste facce di limone (adorabili, soprattutto Leung) sono riuscite a stemperare. Per fortuna, i cameoni posciacrediti sono stati studiati all'uopo per far risollevare il sopracciglio. E insomma, se Disney è sempre il Non Plàs Ultrà,  ci sarà un motivo. 

(2021)



Chloe Zhao: Eternals

Visto un anno dopo l'uscita. Senza ansia per l'attesa.
Considerato da tutti "diverso" dagli altri filmarvel, in quanto ricco di "diversità" assortite, enucleate dal campionario di razze e devianze meloniane: la coppia etero (interracial) che fa sesso, la coppia gay (interracial) che si bacia, l'indiano buffo, la sordomuta, l'emo prodigio, l'adolescente ribelle, il burbero, il superuomo caucasico che l'eroe ma è anche il cattivo e il cattivo che un dio, quindi è superpartes. E i cattivi minori usa-e-getta si chiamano, guarda un po', Devianti (ma sono i soliti mostri ringhianti). 
In realtà è proprio un filmarvel, nel canovaccio basico, nelle coreografie standard, nel casting ponderato (eccetto che per la Hayek, che m'è sfuggita, a meno che non volessero associare la naturale prosperità alla posizione matronale, mentre la Jolie maleficent e secondaria è coerente), nel ciaracter diveloppment da manuale cencelli, nella disinvoltura tra scene seriose e gags per i più piccini. Ed è un film tipicamente americano, con le civiltà antiche usate con approccio leghista (= dei Lego), quindi con gli indiani in Mesopotamia e i caucasici in Egitto, e i negri ovunque, eccetera. 
No, l'unica sua diversità dal resto dell'emmeciume è la coralità: invece di concentrarsi su di un protagonista, ne seguiamo una diecina, uno vale l'altro. 
Nota a parte per i postcredits: i personaggi famosi da introdurre stanno esaurendosi, giustamente le strizzate d'occhi stanno facendosi sempre più per intenditori: stavolta confesso candidamente di non aver riconosciuto questi tizi. 
Come gli altri filmarvel, i fumetti di partenza sono stravolti, tant'è che il migliore di tutti qui è il peggiore (gli autori sono dei draghi). Naturalmente ci riferiamo a Chirbi, i seguiti di Gayman e soci non li abbiamo letti. Non solo: il concetto mysteriano dei nostri avi potenziati dai simil Elohim e trasformati in divinità supereroistiche, qui è del tutto annullato, e questi Eterni, prima spacciati per extraterrestri nudi e crudi, si scoprono poi essere creature sintetiche create in laboratorio. Ma questo genera un cortocircuito che pochi hanno notato: non solo perché questi robot scopano o hanno menomazioni fisiche, ma perché, se sono finti, allora la morale che ci vogliono proporre con l'esibizione delle loro "diversità" normalizzate va a farsi benedire, cioè non è proprio vero che ognuno può essere davvero ciò che si sente di essere; può provarci, ma avrà sempre un gap da scontare, un "peccato originale" da espiare, un senso di colpa con cui fare i conti. 
Per il momento, non è nemmeno approfondita (viene solo accennata di sfuggita in una battuta) l'unica questione che può interessare l'MCU: cioè che questi tizi sono, teoricamente, i "progenitori dei supereroi odierni", non solo perché ne hanno banalmente gli stessi poteri e perché i nuovi attori fanno le stesse identiche pose (ma identiche davvero) di quelli che già conosciamo, compresi quelli della concorrenza (esplicitamente menzionata)... cosa che, finora, ha più il sapore della poverata, ma che, comunque, può assumere un senso in questo micromondo pseudo macro (giacché ci ripetono che l'universo è enorme, ma intanto nel film vediamo sempre e solo loro dieci).  
Essendo Disni, il film mantiene sempre una sua decenza, anche nei momenti più abissali (la parodia di Bollywood), e pur con tutti i suoi limiti aziendalisti (la lunghezza eccessiva, la povertà degli sfondi, l'abuso di computer grafica, la mano della regista che si distingue solo nei layout). Ma, sarà perché anche noi ci sentiamo poverini e diversi e vituperati dalla società, sebbene per motivi completamente... diversi da quelli dei personaggi, alla fine, pur avendo assistito persino all'aborto di un Celestiale, le cui prominenze diventano nuove isole nell'oceano della fantasia (nel senso che non si capisce dove diavolo sia ambientata tutta l'ultima parte del film), proviamo un senso di vuoto, come a dire: "e quindi?" "Tanto adesso, come al solito, andrò a dormire, ma verrò svegliato da duecento rumori improvvisi, e dormirò male o non dormirò proprio, e domani dovrò prendere l'ennesimo cascèt". La vita è una coazione a ripetere, eterna finché dura. "Dinanzi a me non fuor cose create, se non etterne, e io etterno duro"... come finiva?

(2022)



Jon Watts: Spider-Man: No way home

Film-evento, più di Endgame. Forse il film più spoilerato dai tempi dell'Impero colpisce ancora. Chi lo ha visto appena uscito, ha un ricordo in più da serbare nell'album. Purtroppo noi non c'eravamo, l'abbiamo visto a quasi un anno di distanza, con spoilerato tutto lo spoilerabile (e senza aver fatto alcunché per volerlo). Ha funzionato lo stesso, perché, oltre alle caratteristiche di cui sopra, è anche il film più ruffiano di tutti i tempi: se hai visto tutti i film Marvel dal 2000 in poi, e non ti piace, è colpa tua che sei uno stronzo. Capolavoro del fanservice e quasi della cross-overologia applicata, si fa vanto di tutte le forzature immaginabili per puntare tutto sugli aspetti emotivi: non è ciò che facevano i fumetti degli anni 1960? Il bello di Amazing (l'albo) non era proprio l'essere una telenovela? Potremmo dire che aver azzerato lo status dell'Uomo Ragno dell'MCU (che, al contrario di quanto vuole la vulgata, era tutto diverso da quello "vero" nella forma, ma nella sostanza era proprio lui) per portarlo alle connotazioni più classiche possa rappresentare quasi una marcia indietro: e infatti questo è, una ret-con, per un film che del concetto di ret-con fa la sua forza (nessuno dei personaggi dei vecchi film è esattamente lui, sono tutte varianti che si differenziano per una 'nticchia). Il vecchio cast coglie la palla al balzo per rilanciarsi alla grande, tant'è che persino Foxx, finalmente, non sembra un coglione. Tra i cattivi, com'era ovvio, si fa notare Molina, e persino SandMan fa la sua figura. Ma, chiaramente, Dafoe spicca su tutti: non per niente, quando - recentemente - abbiamo attraversato un set appartenente ad un film che stava girando dalle nostre parti, ci siamo tutti ringalluzziti. Ringalluzzevole pure il ruolo di rilievo dato a Strange, che corrobora l'idea del multicinema. In quanto ai due Spideis, Garfield si impegna come se fosse nel ruolo della vita e guadagna tutta la stima che il suo brand non gli aveva concesso; mentre questo Maguire che sembra appena uscito da vent'anni di rehab è semplicemente commovente. A parte l'incipit nel riuscito stile degli altri due Homemovies, la nostra scena preferita è quando Maguire stoppa Holland dal commettere peccato: a quella faccia non si può non voler bene. Infine, più che Devil (ma anche nella sua serie muoveva gli occhi?) ci ha deliziati l'esilarante scena midcredits (capolavoro della trollata): finalmente, Venom-Hardy è riuscito a farci ridere. Persino questo, è capitato. Se solo ci fosse stato Barton nell'albero di Natale, avremmo avuto l'en-plein.

(2022)



AAVV: Hawkeye

Il Natale, quando arriva, arriva. E finalmente è arrivato! Era da quando l'MCU è diventato Disney che lo aspettavamo. Cosa c'è di più iconico di un film di Natale a NY della Disney? Un film di Natale disneyano e newyorkese dell'MCU, più lungo e serializzato. Certo, ogni tassello di questo ultradecennale puzzle, lo sappiamo, è a rischio usa e getta; ma, allo stesso tempo, è un instant classic, un episodio su cui rimuginiamo per mesi, fino all'uscita dell'episodio successivo. 
Va bene, dette queste banalità, e senza voler rimarcare le solite cose del cast azzeccato, dell'epocale svolta (l'ennesima) del recast fasullo di Daredevil, dell'indovinato rimescolamento di personaggi e attori provenienti dalle opere più disparate e che non aspettava altro che confluire in unico calderone, dell'equilibrata sinergia tra azione e festività; ecco, senza voler ribadire tutto sto ben di Dio, c'è una cosa che continua a colpirmi di questo nuovo MCU: i piricozzi. 
Non c'è un solo personaggio che sia fotoshoppato, o patinato, nonostante i look fumettistici e realizzati ad hoc. Sono tutti pieni di nei, brufoli, succhiotti, macchie, rughe e piricozzi vari, uomini e donne, giovani e vecchi, calvi e baffuti, more e bionde. Gli manca solo la forfora.
Sono personaggi quasi veri, insomma.
Guardate Hailee Steifeld nell'altro telefilm in cui fa la lesbica: lì non ha i piricozzi. Qui sì. Lì è in vestaglia e bacia le donne sensuali. Qui ha un neo e un brufolo e indossa vestiti orrendi. Lì è finta. Qui è vera.

(2021)



AAVV: Moon Knight

Primo tassello dell'MCU completamente scollegato dagli altri, senza uno straccio di rimandino piccino picciò manco per sbaglio al resto del mondo, peggio del Wakanda, non dicono "avengers" nemmeno una volta (la connessione alla Fase 4 è solo concettuale: lo Split mentale come complemento di quello multiversale). E per questo paga dazio: non siamo più negli anni '00 (nemmeno nei '10, peraltro); oggi, se si guarda l'MCU, lo si fa volontariamente e con lo scopo di guardare l'MCU e non un generico "film di supereroi" (come quelli dell'imbolsita concorrenza, sottinteso). Non è l'unico difetto: forse ancor più che nei Thor di Waititi, il personaggio e il suo micromondo appaiono parecchio stravolti, perlomeno per chi ricorda come Munnàit fosse un antieroe metropolitano, mentre qui 2/3 di serie è un journey into mysteries (e in chiave disneyana, cioè un po' poverona in termini culturali). Inoltre, dedicare ben metà serie (le prime tre puntate) alla versione burletta dell'antieroe oscuro ed esoterico va ben oltre i primi capitoli dei romanzi di Eco in quanto a sfida al fruitore. Tutto sommato, la prima puntata è interessante, ma la seconda e soprattutto la terza hanno rappresentato davvero un grosso rischio produttivo. Per capirci: ci siamo abbioccati persino noi (perdendoci, sul momento, una delle scene migliori: vabbè). Fortunatamente, quarta, quinta e sesta puntata hanno riaddrizzato la barra e riaggiustato il tiro (non sono doppi sensi allusivi della gag VM18 tra Spector e moglie che compare a muzzo a un certo punto). Per quanto la scelta del manicomio mentale come rappresentazione visiva della schizofrenia sia banale (si capisce, viene dai fumetti più recenti), tutto l'insistito gioco di depistaggi e controrivelazioni, dagli e dagli, ha funzionato: e fortunatamente non si è scelto di copiare pigramente Legion, come pareva inizialmente, ma addirittura si è arrivati a lambire i territori dylandoghiani di Terrore dall'infinito (cioè Chocky o chiunque ne fosse l'ispiratore), con la storia del fratellino rimpiazzato dall'amico immaginario (qui endogeno) e della madre impazzita (forse i pigri fumetti americani recenti sono i copioni originari). Questo, di per sé, poteva bastare? Forse no: e allora ecco la dea ippopotama condurci nel Duat sulla barca solare.  Un vero tuffo al cuore per chi, tanti anni fa, si sciroppava i didascalici libri di Hancock&Bauval, ove quei concetti erano ripetuti fino alla nausea.  Nel finale, se le scazzottate terrene si mantengono su livelli discreti, senza esaltare, non poteva mancare la battaglia tra divinità sullo sfondo a dare un tocco di grandiosità agli eventi visualizzati. Facendo la media, una serie che prima spiazza negativamente, poi delude, poi spiazza positivamente, poi coinvolge; e pure la scena postcredits segue questo andazzo (davvero è morto Hawke? Ma perché). Delude molto il reparto sonoro: in confronto, non solo all'inarrivabile Loki, ma anche ai semplici Hawkeye e Falcon, queste musiche sono abbastanza pigre e svogliate, e pure la sigla è anonima (non facciamo battute sugli arabi che giocano con le suonerie dei cellulari perché non siamo razzisti, ma insomma). Pure sul piano visivo, il complesso non sconvolge. Restano, però, almeno tre/quattro sequenze da antologia: la scenetta del braccio, gli Isaacs dinanzi alla dea, la barca solare e la rotazione della volta celeste (quella che ci siamo persi in diretta). Ma ciò che rende involontariamente memorabile questa messe di sgangheratezze (tipo la tomba di Alessandro Magno, cosa c'entra) è, nomen omen, l'Oscar: una interpretazione totale, annichilente, massacrante, "the greatest showman" (altro che Jackman), dall'avanspettacolo al bipolarismo, Roger Rabbit e Giudice Morton, l'idiota, il sosia, l'adolescente, l'eterno marito, il giocatore, i demoni, umiliati e offesi, memorie dalla casa dei morti. Un vero eroe. Da studiare all'Actor's.

(2022)



Sam Raimi: Doctor Strange nel Multiverso della Follia

Le aspettative più alte mai registrate per un filmarvel, per via della combo titolo+regista. Ma anche il trailer più troll di sempre: quello che sembrava cattivo, era buono, e quella che pareva buona, era la cattiva. Che era una dei buoni! Chi se lo aspettava! Infatti ci aspettavamo tutt'altro. Invece di No way home (completamente ininfluente, alla faccia di chi - coff coff - si è dannato l'anima per seguire l'ordine di rilascio), il film crossovera pesantemente con WandaVision, che noi pensavamo sarebbe stato coinvolto solo parzialmente, e che invece prosegue di peso, rendendo il film quasi l'episodio conclusivo del telefilm. Un'esperienza straniante quasi mai provata prima ("quasi" perché Age of Ultron chiudeva una trama di AoS e perché, comunque, di film che concludevano telefilm ne sono stati fatti parecchi, solo che erano televisivi). La prima metà circa del film soffre questi ribaltoni mentali, nel senso che, anziché il turbinio sinaptico che ci si aspettava, propone una narrazione molto lineare, proprio da WV, e, se non ci fossero il monocolo tentacolare e quei pochi secondi di tuffo negli universi, ci si annoierebbe quasi un pochetto, con l'aggravio di vedere Campbell non interpretare un ruolo importante. Il tutto svolta con gli Illuminati, su cui tutti si soffermano per il consueto geniale giuoco dei Soliti Ignoti ("signor Inumano, è Lei quello del telefilm cancellato e non canonico?"): il  motivo è che è da questo punto che inizia il vero film di Raimi e si scatena la sarabanda sensoriale, tra piroette della macchina da presa (sebbene manchi, sigh, la "carrellata velocissima") e una colonna sonora classicamente onnipresente, con un apice nella battaglia musicale. L'horror non manca, ma naturalmente è quello guascone/dylandoghiano di Raimi, non certo quello duro e puro degli amanti del genere; potremmo anche definirlo disneyano, ricordando i gloriosi corti della golden age o i parchi a tema. L'impressione diviene quella di assistere ad un film degli anni 1990, dunque vintage, ma questo non dispiace, dato che negli 1990 i film li sapevano ancora fare. Come il concomitante Moon Knight, si inizia un po' delusi e si arriva alla fine soddisfatti, non solo per aver concluso finalmente WV, e arrivando pure a ridere di (e con) Campbell. E allora, per 9 miliardi e passa di Euro, signora Theron, ci dica: è Lei la nuova squinzia di Streing? 
P.s.: comunque questi Xavier e Freccia Nera pupazzosi sono bellissimi, mentre Capitan Milfona di What If è uguale al cartone e, al contempo, la solita, ineluttabile gnocca.

(2022)




Taika Waititi: Thor: Love & Thunder

Classico esempio di seguito confezionato dopo il successo del primo: tutte le cose che avevano funzionato per davvero (il grande senso estetico del regista e dei suoi collaboratori, il revival del peplum, i layout studiati nel dettaglio, le ottime coreografie, la vivacità visiva degli extraterrestri... non è un caso se Waititi è passato a Star Wars), e anche quelle che avevano funzionato soltanto nella testa dei produttori (tutto il resto), vengono riproposte rimescolando la minestra. Non è un seguito di quelli rivoluzionari che modificano e ampliano la portata del primo, ma di quelli standard (in cui pure i camei delle guest stars, che la prima volta erano a sorpresa, stavolta erano noti da tempo). Questo se ragioniamo in termini di primo e secondo film: ma in realtà, stiamo parlando del terzo e del quarto, e di un filone che fa parte di un franchise più grande. E allora, sotto quest'ottica, in realtà il film modifica e amplia tutta la paraphernalia legata a Thor e al filone mitologico, ripescando la dimenticata Jane Foster e chiudendo il suo percorso, o, forse (o forse no), rilanciandolo in modo nuovo, e introducendo il consesso degli dèi, che è comunque materiale tratto dai fumetti. A dire il vero, a parte i ravioli, quasi tutte le stramberie extraterrestri presentate sono elementi fumettistici: qui Waititi c'entra poco, l'approccio demenzial-nostalgico-dance-anniottantesco al filone cosmico marveliano è farina di Gunn e Feige, concettualmente Waititi vi si è solo adattato. Senonché i suoi film... modificano e ampliano la portata di quelli di Gunn, nei quali la "diversità" dei non terrestri rispetto ai terrestri non emergeva così prepotentemente. Non è strano vedere Zeus fare il coglione: non è un coglione, è un alieno, cioè è "diverso" (e ricordiamo che il Zeus della mitologia "vera" era uno stronzo); così come lo è Korg, che si riproduce per rocciaferesi (finalmente una allusione lgtb divertente); così come lo è il dio crudele dell'incipit, perfettamente efficace nel rendere l'idea tra aspettativa del fan e realtà delle cose. Ciò che differenzia Waititi da Gunn è proprio Thor, inteso come il rapporto che lega il regista all'attore: laddove i Guardiani - lo si vede anche nella breve comparsata post Endgame che fanno qui - hanno raggiunto col tempo una maturazione (dovuta forse all'aver lasciato Gunn, vedremo se il suo ritorno li riporterà indietro), Thor ha subìto una involuzione apparentemente inarrestabile, che solo la paternità, seppur acquisita (non per l'attore), sembra (sembra) riuscire a quietare: non una trovata originale, ma meglio di niente. A questo proposito, lo Zeus di Crowe cade a fagiolo (l'ennesimo cast azzeccato, come pure Bale, che nei suoi film più famosi aveva perso i genitori e qui perde la figlia e diventa oscuro): vedere questa vecchia gloria del Cinema in totale disfacimento, e pure laziale, saltellare tenendosi la gonnellina e subito dopo scatenare la guerra, restando credibile in entrambi i casi, è sufficiente a far apprezzare l'intero film. Ancor di più, è vederlo prendere coscienza  di questa regressione nella scena postcrediti: "quando siamo diventati una barzelletta?", si chiede. La risposta più ovvia del credente è "da quando c'è Waititi", ma il mio parere laico è che "da quando c'è Gunn" sarebbe una risposta più corretta. Da lettore mysteriano ed elettore con senso civico, è una domanda che, "io credo" (cit.), dovrebbe diventare fondamentale almeno quanto "esiste vita nell'universo?" o "Dio c'è?". Altrimenti siamo solo capre urlatrici.

(2022)



AAVV: She-Hulk: Attorney at Law

Miniserie complessivamente simpatica, che adatta gli inadattabili fumetti di Byrne nell'unico modo possibile ai giorni nostri. Serie ad altissimo rischio di imposizioni sociali e minchiatelle puerili: non le ha evitate del tutto, ma le ha fortemente e capacemente ridotte al minimo sindacale. "Per essere una donna", l'autrice se l'è cavata (igh igh). C'è stato un momento in cui abbiamo davvero temuto che le colleghe di Jem si baciassero. Ma la parodia dei suprematisti è stata apprezzabile, anche nella sua brevità. La protagonista è in gamba, ma già lo sapevamo dalla serie che la rese famosa, e ovviamente i camei hanno aiutato. Ma certo la grossa sorpresa è stato vedere portato avanti un paio di microtasselli di continuità (Abominio e la cornice di Planet Hulk). Per carità, alla fin fine gli ultimi due episodi si divorano tutti gli altri, e possiamo dire che Daredevil gigione e K.E.V.I.N. (esilarante il suo doppiaggio) - e l'Ezio Greggio di Boba Fett! Un genio - siano ciò che resta più impresso della stagione, anche più di Jennifer e dei suoi ammiccamenti forse, ma va bene così. L'MCU fa metacinema fin dai suoi esordi, e ora che l'ha spinto a livelli da cui non si può tornare indietro non gli restava che la metatv (già accennata in WandaVision, ma qui più spinta). CGI davvero ballerina: è spesso ottima, ma c'ha certe cadute nel dozzinale inspiegabili. Il look di SH del fumetto era già bello di suo, e bene hanno fatto a lasciarlo intonso. Ottimo il minutaggio ridotto rispetto al consueto: dovrebbero farle tutte così.

(2023)




Michael Giacchino: Licantropus

Speciale di Halloween, forse uscito poco prima del dovuto: vederlo in quasi-inverno, di sera, sarebbe stato più opportuno che vederlo in quasi-estate, di giorno. Giustamente in b/n (w il b/n! Sempre!), giustamente agghindato con retròserie e spacciato come omaggio ai "vecchi film classici"... ma l'ambientazione sembra comunque contemporanea. Finalmente, la Pietra di Sangue: ma tre parole sono troppe, quindi rimane Blòdstòn anche nella nostra lingua. Come riempitivo hollyweeniano, ha il giusto concept: la "serata dell'orrore" nel circolo degli ambigui. Lo script, però, è modesto, e, a un certo punto, diventa una scazzottata tra umani (prima) e col licantropo (poi). Sì, l'uomo lupo tira pugni e calci. Lo stesso Giacchino - che carriera! - se ne avvede e inserisce almeno un pizzico di splatter verso la fine. Man-Thing è simpatico, la vecchiaccia pure, e alla fine ci piacerebbe (piacerà, I suppose) rivedere i tre superstiti. MA! il fatto che i protagonisti abbiano le voci di Bucky e Nebula lascia un po' il sapore della poverata secondaria. Comunque, giusta la lunghezza: fosse stato un film da due ore, avrebbe stancato.

(2022)



Ryan Coogler: Black Panther. Wakanda Forever

Il filmino di un funerale, come diceva Mr.Paccagnella, ma trasformato in una classica storia epica di origini e rinascite, potremmo dire una tipica storia delladisni, se non fosse che la ditta del Castello Incantato da qualche tempo sembra essersi trasferita in un Grattacielo Grigio. 
Decisamente migliore del primo film, sebbene, a questo punto, ostinarsi nel compartimentare i vari supereroi sia decisamente da sfigati. Tante scene potenti, su tutte l'ultima (precredits, ma anche la post che la integra), con la tizia che tanto avevamo detestato nel "primo" film (aridagli) che alla fine diventa un'ometta con la testa sulle spalle. E diciamo che, stavolta, anche il rinnovo del look ha aiutato. Shuri Shuri Shuri di tuttu l'annu l'amuri ca mi rasti ti lu tornu (è la morale, fateci caso).
Notevole la Wright, la Bassett si impegna più del solito e guadagna i giusti onori (più alla carriera che al ruolo in sé), ma certo vederla canuta ci invecchia di decenni in un botto. Lo ammettiamo: non ricordavamo chi diavolo interpretasse la Lupita; abbiamo dovuto riscoprirlo daccapo, in una sfida a noi stessi. Non sapendo cosa far fare a Freeman, gli autori si giuocano la carta della telenovela, imparentandolo con Valentina Allegra eccetera, dando così un senso a entrambi e pure al film, che altrimenti sarebbe stato eccessivamente stand alone. Tre piccioni con una fava. Infine, Elni Gnosi Namòr. Incredibilmente, tutta la storia ha un senso (a parte il nome) e, ancor più incredibilmente, è credibile. Giusto non averci messo subito pure Latveria, per non appesantire il tutto, ma certo ora questo mondo, preso singolo singolarmente (ignorando multiversi vari), appare un po' meno scontato di quanto ormai fosse nella vulgata comune. Ed è giusto che la celebrazione dell'afroamericanismo passi per lo scontro/incontro con l'ispanismo (gli asiatici hanno il loro film a parte), le elezioni sono vicine, e dopotutto tutti quei Fausti & Furii dovrebbero aver insegnato qualcosa, ormai. Non puoi essere un buon negro se tratti i messicani come i wasp trattano te. Tutto il (si fa per dire) "sotteso" politico, la sacrosanta lezioncina data ai paesi africani (e agli occidentali), era presente anche nel pri...precedente film dedicato a BP, ma risultava svilito dall'ammorbante imposizione della visione per la quale, una persona di colore, per sentirsi pienamente realizzata, dovesse per forza diventare un idiota che dice "yo" e "bro" ogni due parole e batte il cinque a tutti. Questo aspetto, in questo film, è fortunatamente ridotto, e ci svilisce  soltanto in poche, limitate, sequenze (la peggiore quella all'università, frutto delle pressioni aziendaliste che hanno voluto un ennesimo esoscheletro in giro e hanno imposto l'ennesima Newton bertaniana). Una sorpresa, comunque, in un film interminabile, lungo oltre misura, nel quale abbiamo dovuto cedere alla corte di Morfeo per alcuni minuti (precisamente quando abbiamo guardato l'orologio e realizzato che era trascorsa un'ora e trentacinque e mancava ancora un'ora bella piena). Sfrondato di Riry e di qualche "momento drammone", e schiarito qualche nero di troppo (ah ah), sarebbe stato un ottimo complemento di TF&TWS: anche così, comunque, il discorso fila; ma la quest di Shuri, e quel finale, prendono decisamente il sopravvento.  

(2023)



James Gunn: I Guardiani della Galassia Holiday Special

Rilasciato forse un po' troppo presto, sono riuscito a vederlo non troppo in ritardo. Speciale più frivolo ed inutile di quanto sperato, i due cenni di continuità (nuova base, nuova famiglia) sono il minimo sindacale (vabbè, Cosmo). Se Quill è maturato, gli altri sono ormai delle barzellette. Fa ridere vedere Bacon a casa sua o al cell con la Sedgwick, ma comunque c'è poco altro. Anzi, no, ci sono troppe canzoni. Giusto far incontrare Mete Sr. e Jr., ci si poteva giocare un po'. Nonostante la vacuità, sono quaranta minuti che scivolano come niente. 

(2022)



Peyton Reed: Ant-Man and the Wasp. Quantumania

Critiche esagerate, ma due senza tre purtroppo c'è. Solo in parte è il film seguito dei due precedenti, perlopiù all'inizio e nel finale posticcio (pare sia stato riscritto e rigirato stravolgendo parte del senso della storia), e soprattutto nel format dell'avventurona famigliare riprende ed espande ulteriormente il concept dei "tesori, ragazzi ristretti". Ma questo occupa solo un terzo di film; un altro terzo è lo show di Kang, che dopo il prologo di Loki può presentarsi definitivamente al grande pubblico. Anche qui, chi critica lo fa un po' infantilmente, non c'è nulla di tanto diverso dalle fasi 1,2,3. Il cross-over tra i due "mondi" è un po' forzato ed artefatto, vedere tutto quel minutaggio con Megiors e Miscèl Faifer canuta fianco a fianco è stato abbastanza straniante. Bello, comunque, aver fatto in tempo a vivere un'altra (ultima?) avventura con queste vecchie glorie del cinema delle nostre origini, bello aver assistito ancora al miracolo del perpetuarsi di Paul Rudd, ed è stato naturale accettare la figlia di Castiel come figlia, e forse erede, di Ant-Man (è la decamillesima Newton Pitagorico, ma essendo figlia di Rudd non ci irritiamo); solo Wasp è caduta imperdonabilmente nel dimenticatoio. Boh. D'altra parte, a noi Kang era già piaciuto nel suo vero esordio, e vederlo per un'oretta di più ci è parso un giusto riconoscimento alla nostra assiduità (e poi, drin drin snack in arrivo, non ci stancheremmo mai di ascoltare Lopez Jr.). Certo, l'idea che una variante del supernemico sia già andata, e peraltro senza chissà quali eccessive difficoltà, ci lascia ancora qualche dubbio sulla reale portata di questa sottotrama, dubbio che le varianti in costume non hanno proprio contribuito ad attenuare, ecco. Ma siamo speranzosi, a partire già da Loki 2. A preoccuparci è Disney Senza Walt, il vero villain multiversale e semisclerato, che parla parla ma quando deve agire ancora tituba. Lo dimostra il terzo... terzo di questo film, in cui si vedono chiaramente la mano della produzione e i fili del parco a tema. Questo Regno Quantico poco quantico e molto terrestre, con set e costumi riciclati da fantasy anni '80, è stato abbastanza deludente. Abbastanza, non del tutto.  Ma insomma, sempre evviva Murray/Gammino, ma se tagliavano la scena, o ci mettevano un altro, che cambiava? E tutte queste somiglianze starwarsiane... lo possiamo dire? Perché non metterci direttamente SW e fanculo tutti? Tanto prima o poi le contaminazioni che nessuno osa immaginare arriveranno, è solo questione di tempo. A 'sto punto, perché non provocare? Un po' sprecata anche la sequenza dei mille Rudd. Carina, ma ci si poteva sforzare di più, almeno con sfondi e montaggio. "I film dell'MCU non sono film ma grandi episodi televisivi": ecco, stavolta la definizione si applica alla lettera.

(2023)



James Gunn: I Guardiani della Galassia vol.3

Finale di trilogia, che però non è una trilogia vera e propria, i cross-overs hanno contaminato parecchio il materiale di partenza, nonostante qui si cerchi di fingere che si sia trattato di piccole bischerate. In fondo, si può considerare il comportamento di Gamora come un semplice mestruo. No? Vabbè. Film molto bello in alcuni momenti e sotto certi aspetti, una poverata in altri e sotto altri. Ad esempio, Knowhere e la finta Terra sono poverate. Il pianeta degli orgocosi è invece notevole, un intelligente mix di figaggine e parodia senza vergogna (il costume di Fillon), per tacere poi della sapida (auto?)ironia dei padroni che pervade il film tutto (trasformare animaletti in perfetti personaggi umanizzati di consumo, è abbastanza chiaro no? E ci sono pure i Teletubbies). Per i nostri gusti, troppo spazio dato al tizio erede di Yondu, mentre Cosmo, che comunque è Laika, ci è piaciuta (anche se parla come la sorella di Natasha). Gestione salda della coralità, ma forse Quill avrebbe potuto risaltare di più. Ma ormai era deciso che il protagonista avrebbe dovuto essere Rocket, e qui sta il grande pregio e il grande difetto del film: giacché la storia passata del piccolo e indifeso procione dagli occhioni luccicosi, tutto pucci pucci amore dammi tanti bacetti, e dei suoi amichetti animaletti del bosco (vabbè, c'è un tricheco, però lontra e coniglietto connotano il background) altrettanto sciocchinamente ingenuotti e dolcemente estranei alle bassezze del mondo (puro Bosco Piccolo), tutti trasformati in abominevoli freaks, prima sognatori sottomessi poi eroici ribelli, supera in disneyanità qualunque cosa Disney Senza Walt abbia prodotto da tempo immemore, ma proprio qualunque, non c'è gara (con un tocco di Don Bluth, toh, ma insomma, la conosciamo la Disney sadica delle origini); e, tuttavia, è una storia talmente "pesa" da renderne difficile la revisione a chiunque abbia superato l'età in cui le maggiori preoccupazioni sono i voti scolastici e non sembrare sfigati. Con tutti i problemi che uno c'ha, chi ha voglia di andarsi a rivedere pure la donnola che ci muore davanti agli occhi e ci dà il bacetto sulle nuvolette? Il cyberconiglietto e il tricheco con le ruote trucidati? No, grazie. Una volta è bastato. Dobbiamo già patire abbastanza sofferenze senza andarcene a cercare altre. E, infatti, a differenza dei voll.1 e 2, stavolta abbiamo sorridacchiato alle battutacce di Drax e alle faccette di Quill, a manifesto della nostra stanchezza esistenziale. Per una volta che cercavamo l'umorismo, Gunn ha fatto mezzo film drammone. Per citare Gamora: "vaffanculo!". Attori in palla, qualche bella coreografia, bei colori. Speriamo che Disney Senza Walt non butti via tutto. Certo, una storia così ruffiana non poteva che valersi di cattivi macchiettistici (l'AE) o tirati dentro per fare numero (Warlock), ma almeno l'interpretazione del primo si è fatta notare. A differenza di Quill, noi non siamo maturati del tutto, per cui un po' ci infastidisce questo finale dato a Gamora, e non ci entusiasma particolarmente la nuova squadra, ma da tempo abbiamo deciso di badare solo al nostro orticello, e ci facciamo bastare StarLord sulla Terra, pronto per i prossimi eventi. Siamo comunque delusi dal ridimensionamento di Stallone e dalla sparizione di Rhames e compagnia (e non parliamo di Glenn Close). Questo non ce lo dovevi fare, James. Ma dove vai con quegli altri, resta qui con noi. Siamo una ditta di sociopatici, ma abbiamo delle idee, una visione di società. "Abbiamo un sogno: avere un sogno" (cit.). 

(2023)



AAVV: Secret Invasion

Siamo invasi da telefilm: la duplice natura dell'MCU televisivo si fa manifesta in questa opera, che si ricollega alle origini dell'MCU stesso. Finalmente Fury/Jackson protagonista: sì, ma poi? Prodotto quando Iger e Feige non avevano ancora razionalizzato il delirio di onnipotenza e la sovrapproduzione, questo "film in 6 parti" non è, per sua stessa natura, in grado di mantenere tutte le promesse. Vorrebbe essere una serie fighissima e potente, ma finisce per essere una parentesi romantica. Come si può ridurre l'invasione di un milione di Skrull ai soli Rhodey e Ross, peraltro alla fine già reintegrati? Come si può bellamente far dire al protagonista "no, dai, stavolta gli Avengers non li chiamiamo"? Il discorso politico c'è (la Sinarchia dei Rettiliani dietro alla guerra in Ucraina!), ma è ridotto ruffianamente a quattro comparse.  TF&WS era stato più incisivo. Regia e montaggio davvero altalenanti: a volte copiano bene (l'inizio con Ross), in altre occasioni sono davvero pedestri (nella morte di Talos si vedono i movimenti di macchina, come nei film dei Vanzina). Scrittura altrettanto opinabile: Fury che d'improvviso si scopre Black Matter, Rhodey che gli risponde con cinico buon senso, ma è uno Skrull e quindi sarà davvero buon? Poi la cosa di Fury viene spiegata un pochino, c'è uno sforzo di far percepire lo scopo di questo personaggio senza poteri, ma anche qui, saranno cinque minuti. E ancora: non è Fury a diventare l'Avenger definitivo, ma la squinzietta, e vabbè; ma la scena del disvelamento del finto Rhodes davanti al Presidente non ha proprio senso, dopo aver visto Fury e Sonia sparare prima di domandare per sei puntate. Poi il Presidente diventa tutto d'un tratto un dittatore sanguinario, e va bene a tutti. Boh. Per nostra fortuna, il nostro status psicofisico e cognitivo regredisce giorno dopo giorno, e alieni su un pianeta straniero lo siamo dalle scuole medie, pertanto noi ci siamo goduti la serie semplicemente come una non-ultima-ma-quasi gigioneggiata del buon, vecchio settantenne SLJ, finalmente accoppiato alla sua metà. Abbiamo ammirato lui e gli altri big della recitazione (Cheadle, Freeman, Colman) e ci siamo chiesti cosa pensassero mentre giravano certe scene. Ecco, abbiamo detto fino alla nausea come l'MCU sia, oltre che il più lungo film di sempre, il più grande esperimento di metacinema di sempre; ma forse, in questo caso più di altri, avremmo preferito anche  una storia ben raccontata.

(2023)


AAVV: Loki S2

Ah, ma non è una serie tv divisa in stagioni; è un film in due tempi. 
Questo spiega il tergiversare riempitivo di questa "stagione", dove sei episodi si potevano ridurre a due-tre tranquillamente. Ok, dovevamo esperire con il protagonista l'angoscia e il senso di impotenza, il fare parte di un gioco decisamente più grande; sotto questo aspetto, nulla da dire. Loki ha ottenuto la sua redenzione e si è compiuto il suo destino. Bello. E bello è stato vedere l'Yggdrasil, soprattutto perché ci ha ricordato che anche gli americani leggiucchiano, ogni tanto. Rimane comunque tutta quella trafila di Loki che si falcia da solo, e quella "sottotrama" degli agenti TVA esauriti, un po' boh. Divertente, invece, la Fiera/Expo, antenata di Epcot, e mettiamoci pure Majors spettinato coi baffoni, dai. 
E' mancata la magia della "stagione 1", però: rendere villain il cartone animato d'accompagnamento è indice della schizofrenia della Major (ih ih), sclerata a furia di compartimentare e poi mischiare tutto per compiacere chissà chi. 
E Kang? Sarà davvero così importante? Francamente, finora, solo Colui-Che-Rimane ha avuto un minimo di carisma (bella la scena "rivelatoria"), mentre le varianti viste finora sono parse un po' coglione. E, ora, vedere Loki su quel trono sa tanto di "Piano B".

(2023)



Ruben Fleischer: Venom

Che noiona. Per carità, di Venom ho un bel ricordo per quella run horror di Uomo Ragno e i suoi fantastici amici, ma il Venom "punitore mostro" dei fumetti successivi alle origini non è che mi sia mai sconfinferato tanto, con tutta quella paccottiglia di simbionti parenti-serpenti-blob, che manco i Ghoaul'd. Ecco, questo film è "punitore mostro", che fa un sacco di battute, e guida la moto, e dà i pugnoni all'indiano, e alla fine tira in ballo Carnage, un pazzone spettinato tipo telefilm DC, che fa rimpiangere Polansky.  Un filmetto vecchio di 15 anni, e vi dico che sono una delle due persone a cui non fa schifissimo il primo Fantastic 4, quindi ho una gola che Linda Lovelace mi fa un baffo, però, insomma, questa è proprio una robetta. Intravedo il tentativo di adattare Eddie, ma senza Spidey non ha senso. E, a proposito, giustamente - essendo un film per bambini -, alla fine hanno messo il promo del cartone animato al piccì. Cartone che avevo voglia di vedere, ma dopo questo spezzone, direi che non ne ho più.
E poi c'ho sempre 'sta immagine di De Rossi che diventa Venom, che è come stralciare sotto ai miei occhi il patto narrativo.

(2018)


Andy Serkis: Venom. La furia di Carnage

Seguito di un film mediocre, per non sfuggire alla legge del sequel, è ancora più mediocre del primo. Anzi, lo definirei proprio brutto, e sono uno che reputa brutti soltanto un paio di film di Boldi, Sausage party, la scena della merda di Ted e poco altro. 
Avevo scritto altrove come, essendo cresciuto con il terrore dei cartoni animati di "Solletico", in cui l'arrivo di Venom era rappresentato come un horror lugubre e ansiogeno, già faticassi ad accettare l'involuzione Goaulh'd dei fumetti,  con tutti i simbionti buoni che litigano fra di loro. Di conseguenza, già il Venom del primo film mi era apparso un ulteriore svilimento del personaggio: che ingenuo! Non avevo ancora visto il secondo film. 
E se, tutto sommato, il primo presentava anche una parvenza di trama, qui resta solo Hardy, in un one man show in cui parla con la versione sboccata di Harvey. Il resto si guarda e si dimentica un secondo dopo, come le foto su uozzàp, con l'eccezione di Harrelson, il cui ruolo è paragonabile a quello di De Niro in Rocky e Bullwinkle (ma lì c'era stato del coraggio, dietro; il vero ruolo brutto di De Niro è Nonno scatenato).
La scena post credit è quasi un'ammissione di colpa: dimentichiamo 'sta roba e andiamo in Serie A, da quelli bravi.
Ma l'escamotage mi lascia dubbioso, sarà difficile raddrizzare questa variante, come fatto coi Netflix.

(2021)


Daniel Espinosa: Morbius

Filmetto usa-e-getta, in buona parte nient'affatto esecrabile. Come ormai si suol dire, "i due Venom sono peggio", un assioma ch'è anche una teoria scientifica. Certo, è tutto trito e ritrito, le scopiazzature batmaniane fanno sorridere, i titoli di testa&coda sono fatti da noi nell'ora di informatica a scuola (e noi facevamo i siti con lo sfondo giallo e i testi in Times e, ovviamente, i frame). Ma intanto c'è questo Leto, che a noi non entusiasma mai granché, ma che è indubbiamente adatto al ruolo, come lo è l'onnipresente Coltorti (e allora si poteva decisamente evitare di dargli pure Licantropus). C'è Adria Gnoccona, che fa quel che le riesce meglio, cioè esistere. C'è Jared Harris, sostanzialmente sprecato, ma sempre fico. C'è il Dottore Stropicciato, che come al solito rinnega il ruolo che gli ha dato la fama per fare l'esatto contrario. Ecco, il cattivo è la cosa meno riuscita del film: scontato dalla prima inquadratura (il flashback bimbesco), demenziale nella sua stolidità adulta. Abbiamo visto critiche allo yuppismo più efficaci. D'altronde, il concetto stesso di fare film sui cattivi raccontandoli come buoni problematici, e bisognosi di cattivi più cattivi di loro, denota il livello di intelligenza di chi produce questi prodotti (e di chi li guarda, glom). Se non altro, questo è probabilmente il primo comic movie senza comic... e pure senza il movie, direbbe qualcuno, ah ah. In realtà, non è del tutto vero, perché il poliziotto ispanico battutaro non manca, ma grazziaddio gli hanno tagliato le battute, e poi a noi ha divertito di più il collega di Fastenfurius, finalmente in un ruolo serio, purtroppo anche completamente, ma completamente, inutile. Soprattutto, la componente umoristica è data dalle scene posciacrediti, che sfiorano il delirio mistico. E sì: a noi questa idea nonsense dell'Avvoltoio espulso dal MCU diverte da matti, e ancor più ci gasa vedere il Keaton di Birdman intortato in operazioni rovinose sia sul lato Marvel che in quello Dc. Vabbè, ma il film? Non è che ci sia molto da dire, è la solita origin story. Ecco, le scopiazzature batmaniane di cui sopra, in realtà, si sono rivelate salvifiche. I giochi di luci rossonere, la persistente nenia zum zum zum, questo buio nolaniano opprimente e rassicurante, anche utile a nascondere la triste compiuter grafica (a parte le linee cinetiche, divertenti), sono quei trucchetti ruffiani che funzionano sempre, o non sarebbero ruffiani. Apprezzabile il tentativo di fare dell'horror supereroistico, sebbene l'unica sequenza davvero spaventosa sia quella in cui Leto è pelle e ossa e gli ficcano un ago nel midollo. Brrrrr. E adesso, un mondo giusto ci servirebbe questi Tristi Sei su di un piatto d'argento; ma nel mondo reale, anche se paghi il coperto, ti danno la tovaglietta di carta. Speriamo di vedere almeno Gnoccona vampira. In fondo, questi vampiri non muoiono all'alba come le speranze (o erano i sogni? vabbè, è uguale).

(2023)


giovedì 20 aprile 2023

I CLISTERI DI CLYSTÈRE (2)

 

Commenti umorali e scorretti, allo scopo non di criticare una serie a fumetti, ma di rappresentare il decadimento psico-fisico di un lettore, condotto all'esaurimento dalle avversità della vita


MM #373: Incubi! (Castelli/Ongaro-Sforza)

MM #374: Il ritorno della Dea(Recagno-Castelli/Romanini-Sforza-Mangiantini)

Un cerchio si chiude: nel 2005, in occasione dell'uscita di MM 379 "Ritorno ad Atlantide", o qualcosa del genere, in una memorabile intervista a TgCom24 (il canale di Blackman), l'autore di Martin Mystère promise che, con il rilancio bimestrale, le storie le avrebbe scritte "tutte lui" e che con quel rilancio avremmo goduto di avventure squisitamente mysteriane, mica Gli uomini del blues, salvo pubblicare, un anno dopo, Il pavone dell'imperatore. Povero pavone, quante gliene abbiamo dette. Ma chi immaginava che la serie avrebbe finito per pavoneggiarsi in un decennio di vacua - e voluta - ignoranza del suo stesso passato? 

I veri segni premonitori risalgono, comunque, al 2007, allorquando, nel 12° Albo Gigante - che l'estensore di queste righe lesse a ridosso della SBE -, non avendo abbastanza spazio per riassumere tutte le dieci piaghe di Morales (le storie fino ad allora sceneggiate), la rubrica scelse di presentare, a mo' di ventaglio pubblicitario, alcune sottotrame aperte, accuratamente selezionate, con il preciso proposito di riprenderle e portarle a compimento. Martin il marinaio, senza perle nere del Pacifico, però, le promesse non le mantiene per definizione (è noto per far impazzire gli editor) e di quelle trame non ne abbiamo mai vista una fino ad oggi. Eppure, poche settimane più tardi, Carlo Recagno in persona stilizzata, rassicurò agli utenti del forum Agarthi - che l'estensore di queste righe lesse a ridosso del PC - come due di quei buoni propositi sarebbero ben presto - alla peggio, un anno più tardi - divenuti realtà. Si trattava, nello specifico, dei ritorni di Mister Jinx e del Teschio di Cristallo. 

Ma qualcuno tramava alla luce della lampada della redazione, qualcuno che aveva deciso che Java avrebbe avuto un grave malore e che, in preda al mestruo, avrebbe vissuto una di quelle avventure "clickbait" nello stile della morte di Superman; qualcuno molto amato dal pubblico e per il quale gli stessi curatori di MM cominciavano a nutrire un sentimento più forte della tolleranza. Sul calare del 2007 fu, così, mandato allo sbaraglio un filotto di albi firmati Recagno e Castelli, allo scopo di nauseare il pubblico di aficionados, che di questi autori ne aveva le tasche piene dal 1982. La reazione dei lettori speciali fu chiara, non unanime ma evidente. Preso atto del risultato del "crash test", la redazione preferì accantonare le due storie di Jinx e del Teschio e dare il via libera all'originale proposta di Morales: un'appassionante storia doppia fasulla, con due albi autoconclusivi collegati alla bell'e meglio, in cui Java, da un giorno all'altro, si rompe i coglioni e va via con la fidanzata, che poi muore. Il titolo è Java, addio, ma a salutare, in realtà, sono Martin e la redazione. Tracce di come gli eventi si svolsero in tempi relativamente rapidi si trovano nella seconda puntata, dedicata a tutt'altri argomenti e copiata da un romanzo. Fu, questa, l'unica storia "in due puntate" del Martin Mystère Bimestrale. 

Il resto è storia nota: l'avversione del pubblico al n.300, l'abbandono della continuità per fare un dispetto a De Rosa Aldo, il declino senile di autori lettori e personaggi, l'avvento di autori lettori e personaggi nuovi ma già declinati allo stesso modo, l'esplosione di retcon ed errori di ogni tipo, l'implosione della formula bimestrale, fortunatamente ignorata da TgCom24 (in quanto oggi legge solo in digitale, e le scan non si trovano). Snobbata perfino dai troll del web, oggi alla redazione di MM non pare vero di poter sfruttare l'ottuagenario genetliaco della Casa Editrice per anticipare il rilancio di un anno rispetto ai tempi previsti. Ma le giacenze cominciano a scarseggiare, altre avventure del Cristallo con le Zampette non si trovano, all'improvviso Lotti non ha più idee. Fortunatamente, tra le molteplici attività di Castelli, vi è anche quella di Archeologo della Carta Stampata. Ed è dal fondo di quel cassetto dimenticato, tutto pieno di polvere sebbene chiuso da un decennio, che spuntano quelle due storie innocentemente abbozzate, una con Mister Jinx e Java che muore ma è un sosia buffo, l'altra con il seguito di un Classico tra i più amati e in più Erickson e quella cosa lì, come si chiamava?, conseguità?, ah sì!, continuità. Le storie sono in buona parte già disegnate, ma entrambe sono incomplete. Cosa fare? Lampante, riaffiora alla mente la grande lezione del Maestro Morales: abborracciare, mentire, improvvisare, tanto i lettori si bevono tutto. Ecco, dunque, una nuova storia "in due puntate", la seconda e ultima con gli albi formato Bimestrale. L'approccio è lo stesso di Java, addio. Due trame che non c'azzeccano nulla l'una con l'altra vengono fuse in una unica lunga e ambiziosa vicenda "definitiva" dopo la quale tutto sarà prima, tranne un dettaglio. Ma, privi della capacità di Morales di far amare ai lettori storie di cui poi non ricorderanno nulla (fateci caso: delle trame di Morales vengono ricordati solo Maria nuda e la loro natura intrinseca di capolavoro, altri dettagli più precisi appaiono confusi alla memoria dei fans), Castelli e Recagno sono costretti a giocare sporco e a tradirsi. Nell'arco dei due albi ricompaiono, in stretta sequenza, dando quasi l'impressione che l'universo narrativo sia lo stesso in entrambi i mesi, personaggi quali Blackman, Erickson, Jinx, Zulma, Cristallo con Gli Arti Completi, Uomini in Nero, con numerosi riferimenti ad albi precedenti (fortunatamente nascosti in un angolino su sfondo nero). Di più! Cosa sono "Martin che scopre di essere il Capo dei MiB" e "Jinx Capo di alcuni MiB" se non infantile, genuino, fanzinaro fanservice? 

Questa esplosione di concetti si riversa fluvialmente sui lettori indifesi, che rimangono vittime di un fenomeno di dejà vu di massa. Poco importa che le sceneggiature siano piene di errori omissioni e riscritture: a tutti loro, tutto questo ricorda qualcosa. Qualcosa che addirittura, in un tempo remoto, quando erano quarantenni elegantemente vestiti, gli piaceva pure, almeno in parte. Ma oggi gli anni sono ottanta e la moda è avere le pezze al cu.., così molti si dichiarano delusi (oppure scaricano l'app con cui lo certificano). Perché Maria ha dovuto morire e Java no?, si chiedono. Che, è sessista? Se non ora, quando?, ripetono. Altri, meno inclini alle polemiche, invocano Atlantide e Mu, se non in questa storia, almeno in un'altra, non troppe volte però, perché poi stufano. Diversi i fortunati che confondono i due albi con quelli di Morales e gridano al capolavoro senza sapere bene il perché, ma non fanno testo. Come riferirà lo stesso Castelli: è il mercato a dettare le regole, non la frutta. Eppure, tutti costoro avrebbero molto su cui recriminare. A partire dall'escamotage del sosia, copiato da un albo vecchio (non citato, giacché Castelli non lo rammenta) e sceneggiato come un fumetto del Corriere dei Ragazzi. E per quale motivo Smith non è Peter Forman? La dabbenaggine più eclatante è, senza dubbio, quella, ormai celebre, della pazzia di Smith autoretrodatantesi. Ma l'elenco è lungo. Martin dichiara di non aver voluto Altrove tra i piedi, ma da quando in qua Altrove fa quello che dice lui? E ancora: Java è notoriamente un uomo di Neanderthal, ma pure se non fosse notorio (ma lo è, perché gli dedicano i realities), come è possibile che nessuno gli faccia un'autopsia come si deve? E ancora: come fa a rimpatriare come se nulla fosse, se è un vip ritenuto morto? La vertigine della lista ci obnubila e pure noi finiamo per dimenticarci il resto dell'elenco. Gli autori possono tirare un sospiro di sollievo: tutto è cambiato per non cambiare, tirem innanz, meno male che Mario c'è. 

Resta, dietro le quinte di questa baracconata, un tizio, un po' più intelligente degli altri, che si soffia sul dito: è colui che, in questo cumulo di cianfrusaglie ha visto qualcosa che per molti è sembrato come un dettaglio secondario, perso nel dejà vu. Il talento. Quello innato, che prevale sul mestiere. La capacità di creare immagini o situazioni subito iconiche e memorabili. Travis serio e autorevole. Jinx al tavolo coi MiB. Martin disperato per i vicini. Martin disperato per tutto. Il teschio di Magnus. Silvio Blackman che si scusa. Erickson dopo duemila anni. Quello splendido set Lego che è la casa di Smith. E, soprattutto, Smith stesso. Personaggio sorprendente nel primo albo, entra nell'iconografia di Babele quando, nel secondo albo, si scopre che è uno sfigato qualunque, che gira sempre travestito da MM con la barba. Quante avventure avrà da raccontare, questo personaggio, che ritroviamo sulla copertina della prima edizione italiana di Dracula? Vogliamo leggerle tutte.

Così come la Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca, ma la conosciamo tutti, e tutti ci ricordiamo la scalinata, ecco che lo stesso accade per questa dignitosa ciofeca, questo catalogo infinito di errori pedestri e bambinate, questo funebre portfolio artistico shakerato non mescolato, che tuttavia ci regala perle istantenee, subito indimenticabili. Una storia-meme che ricorderemo tutti ("meme" deriva da "imitazione", ma sputateci in un occhio se la radice non sembra "memoria", d'altronde si imita per essere ricordati), e con affetto intediamo, e che assurgerà a simbolo di un'epoca.

Brutta, ma per cui proveremo nostalgia quando anche noi, come Martin e i suoi autori, saremo vecchi e imprigionati in un tempo peggiore di quelli precedenti. 


MM #375: Ottant'anni fa (Castelli/Filippucci)

Per un fumetto capace di rendere credibile il plagio di un robottone e l'accostamento fumetto=marijuana, in storie ricche e memorabili, celebrare il compleanno della Casa Editrice che lo pubblica non può che essere un giuoco da vigorosi balilla. Se non fosse che è lo stesso fumetto che, quando si è trattato di festeggiare il proprio trentennale, è stato colto da alzheimer e non ha saputo offrire di meglio che what if random e retcon di sé stesso, e che da allora non si è più ripreso. Ma l'occasione è troppo ghiotta per essere sprecata, e comunque "Anni 80" è stato già fatto negli anni 80. Ritorna, dunque, una vecchia conoscenza della serie, l'Uomo con la Barba, che annovera, fra le interpretazioni più amate, il cameo nei pressi della SBE in MM #139. Viene anche ripescato un concetto più volte ribadito in altre occasioni (fra cui il succitato trentennale), per il quale il fumetto "Martin Mystère" esiste realmente nell'universo narrativo di Martin Mystère. Insomma, laddove in Nathan Never vi è l'universo olonomico, MM si fa forte del suo universo ergonomico, chiamato così perché fa comodo agli autori. Da presupposti coerenti si sviluppa una trama classica, con il ritmo dei racconti brevi promozionali e dai dialoghi visibilmente scritti da una persona brillante ma ormai anziana. Non c'è la sorpresa di vedere Martin con in mano un fumetto di antiquariato (MM #274) o interagire con il suo biografo ufficiale (MM Presenta #6 e #8); non è una novità veder comparire una figura proveniente dal passato, presentata in modo sinistro ma la cui identità è palese fin da subito (MM #130, MM Presenta #6, rubrica di Storie da Altrove #22); l'apparato storiografico stuzzica ed intriga, ma era già stato annunciato da sinossi e preview. Cosa resta, dunque? Una lettura leggera ma non demente, che soltanto alla fine sbraca un poco. Non è un problema l'ennesima "piega dimensionale", giacché siamo grosso modo dalle parti de L'amuleto di Tin Hinan, che era uguale. Non è da darsi troppo peso al Tardigrade e al robottino, personaggi simili li abbiamo visti in altre occasioni. Non è un guaio l'aver ripescato pour parler Adam e Korg proprio dopo averli dichiarati morti il mese prima (è comunque curioso che Martin li rammenti immediatamente). Non è certamente un misfatto l'ennesimo incontro-scontro metafumettistico con un eroe del passato, l'intera serie si basa su queste cose. Cosa c'è che non va, allora? Forse il tardigrade viene sconfitto con modalità davvero frivole (e già viste, MM #268) e, pur con tutto l'approccio metatestuale che il lettore può mettere di sua sponte, l'"esplosione di fantasia" appare davvero come la prima cosa che è venuta in mente allo sceneggiatore stanco. Col senno di poi, ha una sua logica, giacché il tardigrade è l'autore/lettore di strette vedute, mentre Martin e l'Inafferrabile rappresentano quelli "speciali" (o è il contrario, oggi non si capisce più bene). Ma è un ragionamento che può emergere solo a posteriori, in fuga dai commenti trancianti, mentre, riponendo l'albo sullo scaffale, e osservando la discrasia coi bimestrali, si esclama "Per tutti i diavoli dell'inferno, che ci stiano ancora, le costole?". 


MM #376: Come ai vecchi tempi (Recagno/Grimaldi)

Al termine di un pasto interminabile e ricco di portate - ben quattro mesi e tre albi - è inevitabile, per i commensali arrivati alla frutta, scambiarsi ricordi in preda all'abbiocco diuretico e all'estasi alcolica. Il nuovo ciclo di MM si apre così, con un albo dal titolo programmatico, che fa di tutto per rievocare momenti gloriosi e rispolverare vecchiume dimenticato, ma finisce per ripetere le solite chiacchiere, abbondando di ellissi e salti logici e mancando di sottolineare le cose importanti. Dalle risate ebbre si passa presto alla pennichella sul divano. Bacco, tabacco e Venere riducono l'uomo in cenere. Basta prendere in considerazione la chiave di volta dell'episodio: il villain rapisce l'eroe al solo scopo di farlo parlare e tenerlo lontano dall'azione; appena lo libera, se lo ritrova invischiato nella stessa azione da cui voleva tenerlo lontano, e ne ride. Un certo signore, molto tempo fa, avrebbe detto: "ma è demente?". Certo, la rivelazione conclusiva sulla sua identità ci suggerisce che probabilmente lo è, ma giocare sulla complicità del lettore (che si trova nella medesima situazione) equivale a giocare sporco. E non sempre funziona: sorprendentemente non pochi hanno storto il naso dinanzi alla sequenza (ormai di culto) della spada ciulata dalle mani con la corda, con un elicottero silenziato che appare dal nulla in modalità stealth mentre Martin porta il cimelio ancestrale e pericoloso a fare una passeggiata. Come ai vecchi tempi? Se persino i lettori speciali hanno avuto un guizzo di lucidità, evidentemente sì. Ma la sceneggiatura appare più quella dei tempi recenti, a meno che dieci anni non siano già da considerare passato remoto, e forse per il pubblico che si intende inseguire è così. A salvare capra e cavoli (cioè lettori ed eventi) interviene, fortunatamente, la mitologia nipponica. Una saga sempre ricca e affascinante, fonte inesauribile di spunti e mysteri, e forse per questo poco esplorata dagli autori. Anche in questo caso, giacché la storia di Susanoo viene rinsecchita e riassunta fin troppo in fretta (il mostro ha due teste, ma sembra che ne abbia otto, non poteva averne quattro allora?) e, soprattutto, il parallelismo esplicito fra gli eventi del passato remotissimo e del tempo presente - una tradizione di MM questa sì, come ai vecchi tempi - viene sottolineato soltanto da due grassetti e da un cambio di inquadratura, e infatti sfugge anche ai recensori. Ma è chiaro che le dinamiche tra Izanagi, Amaterasu e Susanoo, come quelle tra Mark, Martin e Sergej - padre, figlio e spirito affranto - sono sovrapponibili. Il padre protettore, l'ambizioso diplomatico, il ribelle incattivito. In questo Recagno sembra effettivamente essersi ricordato di quando era l'ambizioso diplomatico, anziché il ribelle incattivito degli ultimi anni... o è il contrario? Boh. Insomma, oh Susanoo non piangere perché ho lasciato là la lama per tornare al fu Mystère. E ci commuove sapere che la telenovela non è ancora conclusa, un po' come quando vediamo che in Beautyful c'è ancora Eric Forrester, ultimo residuato dei vecchi tempi. E allora passi l'Orloff di nuovo macchietta, passi la finto Morgana passeggiatrice, passi Kut Humi che o mente o non ha aggiornato l'Akaschi. Ci va bene tutto, "purché se ne parli". Deludente, invece, l'autoanalisi interiore di Martin, che non sembra mai essere davvero convinto di essere cambiato e gli basta vedere il padre due secondi per pentirsi di tutto. Va bene che non è Dylan Dog, ma è pur sempre quello che, quando era sulla sedia a rotelle, ha rimuginato per duecento pagine. A proposito, il disegnatore è lo stesso di quella volta: lì ha fatto solo gli sfondi, qui purtroppo anche il resto. Per concludere: un nuovo ciclo ha inizio, e noi maschietti ormai sappiamo che in questi frangenti è meglio non avanzare troppe pretese. 


MM #377/378: Il vampiro di Vienna/Gli Uomini in Rosso (Barzi/W.Venturi)

Concluse le celebrazioni per il trentanovennale, il "nuovo corso" della testata entra nel vivo, pardon, non-morto. Ma l'occasione per protrarre il party in mascherina è ghiotta: in contemporanea a questa vicenda, Zagor - nel suo mensile - si reca in Europa per sconfiggere un vampiro, e precisamente a Vienna, e il disegnatore è lo stesso; il cross-over è dunque servito su di un piatto d'argento, ma l'argento è nefasto per i licantropi, e licantropi o vampiri, sempre mostri sono, come evidenza il frontespizio della seconda parte; quindi niente, il rimando a Zagor lo fa Dylan Dog. Il redattore Barzi ha, invece, ricevuto l'imbeccata di rovinare un altro vecchio Classico, quello del Vampiro a NY, sulla scia di quanto perpetrato da Lotti negli ultimi anni, in un contesto (ma nessuno lo contesta) di "innovazione nel segno del tradimento". Senza che la cosa scalfisca più di tanto il protagonista della serie né i suoi lettori, scopriamo, così, che Herman Strauss (ma per noi resterà sempre "Stephen Queen"), prima dei romanzi commerciali, è stato compulsivo autore di libretti d'opera e di cinema popolare, arrivando a sceneggiare quasi tutto lui, mentre gli altri vampiri facevano da truccatori, scenografi, sarti, elettricisti, cassieri, venditori di pop corn. L'idea appare coerente con uno dei postulati bonelliani, il "Vivono tra noi" dylandoghiano, nonché con La notte dei non-morti (#271/272), pustola mysteriana ripudiata un po' da tutti. In quell'episodio, che il nostro autolesionismo ci ha impedito di dimenticare, i vampiri collegati a Strauss erano emo e bimbominkia, curiosamente il pubblico inseguito oggi. I vampiri di Barzi sono, invece, Amish e cosplay: qual è la differenza? Beh, in effetti, nessuna. Teoricamente, il fumetto presenta elementi decisamente dampyriani, e nella connotazione gerarchica e folkloristica dei non-morti, e nella pesante cinefilìa e frivolezza della narrazione. Ma a nessuno sembra importare qualcosa di questo "Dampyr", né il Colonnello appare all'altezza di cattivi dampyriani quali Rubicante e Zarema. No, il tono della vicenda è quello caciarone di Supernatural, che proprio quest'anno abbiamo integralmente rivisto e finalmente concluso, una serie tv solo recentemente scoperta dagli autori di soprannaturale (sorprendente l'elogio fattone da Maurizio Colombo). Le silly faces, i poliziotti buffi, l'andirivieni, il nozionismo spiccio, le armi spantega, la retcon fregna, il villain sfighiz, le citazioni pulp. Non manca nulla. L'artista, sempre serioso e precisino su Zagor, può sbizzarrirsi nel cartoonizzare Java e personaggi reali come la youtuber, mentre il volto del cattivo se lo trova già pronto. Il mystero alla base della trama è niente più di una sinossi e la foliazione delle due parti è di 156 pagine: solo un detrattore può pensare che si tratti di una giacenza dei bimestrali. Oltre alla scelta dei vampiri, da sempre desiderosi di nascondersi agli occhi dell'opinione pubblica, di fare una strage in un cinema, ciò che resta più impressa è la striscia di presentazione conclusiva della prima puntata, modellata su quelle storiche che accompagnavano le testate Bonelli dei tempi d'oro, ma che MM non aveva mai potuto sfoggiare. Una piccola chicca, subito degradata dal titolo sbagliato del secondo albo, così da accontentare sia gli intenditori (di poche parole) che i commentatori (di destra).


"Nuovo corso" anche per lo Special, che dopo 34 anni saluta Altrove e combriccola per darsi al riempitivo puro. L'episodio portante è 

MM Special #38: Fiamme sulla laguna (Artusi-Zilio/Ongaro/ col. Ongaro)

è la novelizescion a fumètts (nelle ex canoniche 94 tavole) del racconto in prosa Non si scherza con il fuoco di Alberto Toso Fei, provvidamente proposto gratuitamente sul sito della SBE. Leggendolo (il racconto in prosa), si ha l'impressione che si tratti di una vecchia giacenza, realizzata quando l'universo narrativo di MM era ancora credibile. La versione a fumetti, fortunatamente, visti gli autori, non tradisce i contenuti del racconto, limitandosi solo a ripresentarli con una sequenzialità leggermente diversa, e con un paio di semplificazioni che tuttavia non vanno a rovinare il soggetto: l'analisi grafologica, su cui il fumetto sorvola, e la nota di azione conclusiva, che però serve a dare un senso alle scenette di Java con la gondoliera, che invece nella prosa si perdono nel nulla. La differenza più grossa, apparentemente, è data dalla collocazione cronologica: la prosa situa l'azione nel 2003, il fumetto nel 2021; ma noi sappiamo che ormai è come dire "ieri l'altro" o "ieri". In definitiva, in ambo le versioni, siamo dalle parti del "mystero italiano" riempitivo degli anni 1990, dunque con una corroborante dose di nozioni e collegamenti mentali a sopperire i cincischiamenti del protagonista della serie, preso più dalla gita turistica che da altro. L'arte di Ongaro è la solita, ma stavolta si presenta colorata, e riesce, così, a non infastidire.  

MM Presenta #17: Pape Satan Aleppe! (Castelli/Mangiantini)

è un nuovo raccontino turistico-promozionale, di 16 tavole: ai tempi d'oro, lo avremmo dovuto faticosamente reperire in un qualche volume o catalogo prestigioso e costoso, per poi implorare Castelli di ristamparcelo economicamente da qualche parte. Ora ce lo troviamo infilato qui, come tappabuchi, allo scopo di non diminuire la foliazione. Castelli celebra, giustamente, l'anno dantesco alla sua maniera, mostrandoci il Dante meno noto, quasi demistificato, quindi barbuto e guerriero. Per l'occasione, si tenta di risolvere il mystero della famosa frase, quella che dà il titolo all'episodio, riconducendola al cavallo Satàn a cui Durante sarebbe stato affezionato: è un'idea di fantasia, scaturita dalla volontà di omaggiare Tex nella copertina, ma che è inserita in un contesto storico e che dunque appare credibile. Certo, a "Pape" e "Aleppe" bisogna arrivarci per deduzione. Quasi tutta la storiella è un flashback: Mystère compare soltanto per contratto, a Ravenna, dove abita quel nostro amico, e dove l'autore non manca di infilare l'ennesima fantasmagoria di pura invenzione. Al fumetto è abbinata anche la "Fantasmagoria" vera (la rubrica), ma delle due pagine una è dedicata a Virgilio e ai suoi misteri, tra i quali, guarda caso, la testa parlante di cui si occuperà una storia successiva. Il fumetto, non si sa bene per quale motivo, avrebbe dovuto essere illustrato da una prestigiosa guest star, Aldo Di Gennaro. Visto il colore della "storia lunga", forse l'intenzione era di trasformare lo Speciale in un volume di lusso. Grazie al Covid ci è toccato Mangiantini: da tempo sosteniamo la necessità di avere in squadra artisti "vecchio stile", veloci ed "industriali" ma sempre leggibili, alla Bignotti; l'arte di M.M. risponde a questi requisiti; ma, se si migliorasse un po', non ci offenderebbe di certo. Infine, 

Il cimitero dei computer (Castelli/Montanari-Piccoli) e La scintilla (Castelli/Della Monica) sono vecchie glorie rievocative di epoche ormai scomparse.


MM #379: A Nord da Nord-Ovest (Badino/Velardi)

Primo albo da "Nuova Era Mensile" a tutti gli effetti, appare quasi una dichiarazione programmatica: Martin Mystère, picchiato da un razzista, si domanda quale senso abbia ancora viaggiare ed esplorare, e, viaggiando ed esplorando, scopre che dietro al mystero della sparizione delle due navi Terror ed Erebron non v'era alcun mystero, ma solo storie di razzismo a catena: gli eschimesi odiano i vichinghi che odiano gli inglesi che odiano gli americani che odiano gli indiani che odiano i cowboys che odiano il nozionismo. "Gli Uomini in Bianco", ricordate? Tutto questo appare realisticamente e drasticamente coerente: oggi Martin è un indefesso piddino ed è logico che le sue avventure siano adeguate ai tempi correnti. A Badino, poi, va dato atto di aver imparato lo schema delle storie mysteriane post Segreto di San Nicola, anche se alternare tra flashback e presente ogni due pagine è un poco eccessivo e confusionario (ma anche questo è coerente, con il pubblico). Le intenzioni sono lodevoli: una riflessione ad ampio raggio sul ruolo del mystero e di Martin in questi tempi tristi e mistificanti è ciò che da tempo chiediamo (e forse è proprio per questo che ci hanno ciulato l'idea); così come il concetto di Martin esploratore del mondo, anziché mero fruitore di aerei e taxi, necessita quanto mai di una rispolverata; la risoluzione esoterico-ancestrale di una questione sociologica attuale è una ricetta classica della serie; e non stona del tutto nemmeno la demistificazione della scomparsa delle due navi, in quanto trattasi di realtà storica, essendo state ritrovate di recente. Non mancano nemmeno situazioni ficcanti dal sapore prosperiano: da "Ho conosciuto Anja Soengard" - "Non conosco", squisita battuta razzista rivolta da Martin all'esquimese, a Java che se la scopa, l'esquimese, unendo le due culiture. Il tutto, però, risulta, in qualche modo artefatto, centrosinistrorso, e non aiutano certo i disegni di livello GaL!. Tant'è che tutto comincia con Martin che chiede acqua "da asporto" e si conclude con la citazione letterale moralesiana, passando per una pedissequa esposizione storiografico-televisiva della storia dell'esplorazione Franklin, dove i personaggi hanno i volti degli attori della serie tv e dove i dati storici vengono poi ripetuti pari pari nella rubrica, per un albo in cui pure il titolo è una circonlocuzione. 


MM #380/381: La Ballata di Thomas il Rimatore/Tutta la verità (Lotti&Mainardi/Orlandi)

Secondo episodio doppio della nuova serie mensile, ma niente striscia di presentazione al termine della prima parte: ci era piaciuta, perché dovremmo volerne altre? Meglio troncare di netto e dare l'impressione che la storia sia una giacenza dei vecchi bimestrali, così da dare ai complottisti pretesti da rinfacciare loro in seguito. In realtà, le due parti sono davvero distinte: i dialoghi piatti, le vignette inutili mute o in cui si ripetono cose già dette prima, l'informatica for dummies, la cicciona e lo spionaggio spiccio rivelano platealmente l'identità dello sceneggiatore della seconda puntata. La prima, di contro, parrebbesi di Mainardi, l'autore della NAAC meno illeggibile, e infatti è più leggibile della seconda. Certo, la trama delle previsioni del futuro scatenate dal luogo ancestrale - no, dalla chiesa, no, dall'altare, no, dai parassiti - trasportato nel centro commerciale da Trump baffuto, è una trama che nemmeno il giovane Castelli saprebbe rendere credibile. E quindi anche l'identità dell'autore del soggetto è chiara, soprattutto considerando che quel canovaccio di cui sopra viene messo da parte e sostituito da una spy comedy e quindi da un viaggio in Florida "che fa tanto una vecchia storia" (e in fondo, tra previsioni del futuro e di attentati, abbondiamo di remake allusivi). Ma l'elemento che più inchioda il co-autore di Mainardi appare quello buttato lì alla fine, la continuity improvvisata col #375, il primo della nuova serie. Scopriamo, infatti, che di tardigradi ce ne sono tanti, sono tutti senzienti e gestiscono l'intera rete di psicobubbola casistica che fa da supporto a Gaia (e non devono tassativamente avvicinarsi agli esseri viventi, anche se è impossibile). D'altronde, l'accenno, nel primo albo, al tardigrade spaziale, poteva sfuggire solo a un lettore disattento (o di grado tardo, appunto). Ma perché a Gaia dovrebbe fottere qualcosa di predire il futuro? Il Genius Loti non ce lo dice, lasciandoci dispregustare futuri sviluppi. Non è l'unica innovazione del fumetto: appuriamo che in Italia Java si è appassionato al giuoco del calcio, ma segue con piacere anche il baseball; che a Martin i centri commerciali danno fastidio, anche se poi, se proprio deve, ci va pure lui; che Diana si arrabbia quando i cantieri le bloccano la strada e non le fanno aiutare i bambini poveri in pace. Le numerose frasi in antico gaelico, riportate fedelmente, ci danno modo di leggere qualcosa che non leggiamo tutti i giorni (in quest'ottica è da intendersi anche la rubrica dedicata alle mele, che non c'entrano una mazza col tema della storia, che pure non c'è).


Martin Mystère #382: Gli Spiriti del Natale (Lotti&Mainardi/Sforza)

L'annata si conclude in bellezza: dopo due mesi di Lotti&Mainardi, eccone subito un terzo. La strana coppia di sceneggiatori (nel senso che è strano siano sceneggiatori professionisti) stavolta coglie la palla al balzo (albo dicembrino) per rovinare il ricordo omaggiare i Classici a tema della serie: Nostra Terra dei Mysteri per la foliazione e l'idea dell'albo-strenna favolistica; Generazioni per Dickens e i suoi derivati. Il tutto con i toni dello Speciale estivo, che in estate ha fatto lo gnorri, quindi l'appuntamento non è del tutto saltato. Purtroppo il livello è davvero tiramollesco (per non dire sempre topolinesco). Ad Altrove è entrato un gatto e gli altroviani lo hanno adottato. E questo già basterebbe, ma il gatto, non pago, viene posseduto da un "plasma cacciatore" sfuggito ad un esperimento di due altroviani goffi, i quali odiano il Natale. Il plasma - cacciatore, come i cacciatori di taglie cristallini e cavatappici (ce li ricordiamo, vero?) - riceve dunque la missione di cancellare il Natale: e questa è la trama. Angie trova il gatto, lo appioppa a Martin, smanioso di fare il remake di Manny Gould (altro Classico rovinato omaggiato): e questo è lo svolgimento. Per impedire a Martin di ricordare cos'è il Natale, il plasma imprigiona nel Sondo del Mogno gli Spiriti del Natale dickensiani, ma Martin lo convince che il Natale è bello e l'amore vince su tutto: e questa è la conclusione. In realtà, il plasma ha cambiato idea solo perché gli piaceva Angie (s)vestita da Babba Natala: e questo è un fumetto che viene pubblicato dal 1982, e che ora ha il frontespizio mezzo a colori mezzo in b/n.


Nathan Never: Uniti per il Pianeta (Vigna/Bonazzi,Foderà,Grimaldi/ col. Cerchi)

Volume cartonato uscito solo nelle migliori librerie (migliori nel senso del governo correlato, Cingolani sponsorizza). Cross-over basato sui presupposti di Nathan Never #300 e #359, in cui Nathan viaggia tra gli universi bonelliani e incontra Mister No e Martin Mystère. Il primo, in realtà, lo aveva già intravisto di sfuggita, mentre il secondo, nei succitati albi, non era in casa. Stavolta ci sono tutti. Fumetto un po' troppo didascalico, anche la minaccia dei Pretoriani appare un po' esagerata (liberare la CO2 stoccata nel sottosuolo è sufficiente a sconquassare il clima su tutto il mondo? A meno che non abbiamo capito male e le alterazioni atmosferiche colpiscono solo la Costa Est. Ma poi si dice che vogliono distruggere il Pianeta, e d'altronde il titolo è indicativo). Alcuni errori ci fanno inarcare tutte le sopracciglia (quante ne abbiamo?). Tanto per cominciare, Nathan spiffera a tutti questo suo segreto tecnobubboloso, e addirittura, alla fine, Legs sentenzia che le "fa sempre un certo effetto" vedere le persone fare i salti quantici; ma quando mai le ha viste? Qui, fino a dieci  pagine dalla fine, non sa nemmeno chi siano tutti questi anziani brizzolati o tinti di cui si circonda il suo collega. La stessa Legs ci regala poi la battuta più divertente dell'episodio, quando chiama "vecchia lattina" il sciùr Mystère, scambiandolo per il robot... e lo stesso Nathan, schiaffeggiandosi enfaticamente la fronte, d'improvviso si ricorda dell'esistenza di quel suo amico, il ché contraddice platealmente l'universo vignesco, in cui il Martin robotico non esiste, oltre che gli episodi precedenti di questo stesso filone "quantum leap", dato che, come detto, Nathan e Brohme avevano vanamente suonato il campanello a Washington Mews (evento che viene pure ricordato!) senza che all'Agente Alfa il cognome "Mystère" dicesse alcun ché. Boh. Lo stesso Mystère, inoltre, non associa il Mister No dinanzi a lui a quell'anzianotto che ha incontrato in un paio di circostanze, gli pare solo una somiglianza. Infine, non ci risulta che nel 1986 Washington Mews fosse già sbarrata dal cancello. E questo è quanto può interessare un consumista come il lettore (speciale e non), giacché il tema ecologico non è poi così approfondito. Prendiamo per buona la notizia degli stoccaggi di anidride carbonica, ma di più non possiamo fare. Mica possiamo imbrattare i monumenti. La foliazione di 64 tavole costringe l'autore a stringere quanto più possibile; ciò nonostante, ciascun personaggio ha il suo momento di gloria: non solo i tre protagonisti, ma anche Brohme e Greta Suzuki (sic!). La premessa, posta nei citati albi di NN, per la quale la base di Brohme si trova nell'Amazzonia degli anni 1950 ('52, scopriamo qui), a posteriori pare studiata a tavolino per dare il via a una storia del genere; l'interazione con Mister No è gradevole nelle sue brevità e semplicità, nei testi come nei disegni (di Foderà). C'è tutto quanto il repertorio: l'alcol, le notti, gli indios, il Piper. Grimaldi disegna la sequenza nella New York del 1986: di puramente mysterioso non c'è nulla, Martin vi compare più in quanto divulgatore tuttologo (e vecchio amico di cui ci eravamo dimenticati, vedi sopra). Serve solo a raccontare il trivia del vulcano Tambora, che ha causato diversi eventi storici. Compare quasi più Aaron nell'epilogo che Java.  Bonazzi, ovviamente, illustra le sequenze futuristiche: nell'ultima, in cui agiscono anche i due ospiti del team-up, ha difficoltà nel disegnare i volti di Jerry e Martin. Drake e Mystère rubano la scena proprio nel futuro, mettendosi avventatamente nei guai con i mutati marziani nella fazenda. Curiosamente, i raggi del Murchchdana e dell'arma generica di Never hanno la stessa foggia. Comunque, la presenza risolutiva del triumvirato si limita al rubare il barile di CO2. Nell'epilogo ritroviamo pure il Darver insensatamente canuto e persino il Presidente (di quale che sia ora l'Ente governativo nel Nuovo Ordine Vignano), e veniamo gentilmente invitati a fare di più per preservare il Pianeta, o almeno l'Amazzonia, o almeno quel che ci capita a tiro. Copertina di Sergio Giardo.


Martin Mystère #383/384: Ritorno a Slumberland/Riscatto a Quattro Dimensioni (Eccher/Piacentini)

"Il camion è fermo sulla linea di mezzarìa" - "State calmo, sta spostandosi sulla destra, permettendoci di inserirci nell'altra corsia". Si apre così questa nuova giacenza del bimestrale: "dialoghi chirurgici" (cit.), che vanno dritto al punto, lasciandoci all'istante in coma. D'altronde ci troviamo nel dichiarato seguito de La Sindrome di Matusalemme (Gigante #13), il Classico di riferimento per le nuove generazioni di autori ultraquarantenni. Finalmente le questioni rimaste aperte in quella vicenda (Marmor, il "regalo", la stessa Slumberland) vengono chiuse? No. Perché? Non è meglio l'invasione di generici mostri oltremondani, che non vediamo mai e che possiedono demonicamente le persone? Dopotutto, quello era il Gigante in cui Castelli se la tirò e fece venire l'ictus al suo alter ego: lo sceneggiatore suo erede (assieme agli altri che puntano a spartirsi la torta del vecchio), giustamente presenta una storia capace di procurare lo stesso effetto. Eppure, per qualche strano allineamento d'astri, il primo albo risulta revisionato. Palese è l'indicazione del Direttore Responsabile di mischiare le pagine come un mazzo di carte da illusionisti, e mostrare gli eventi in ordine cronologico sparso, a spizzichi e bocconi, per aumentare la suspence. Altrettanto redazionale è l'ennesima gag sugli haters del BVZM, e quasi sfacciata è l'introduzione paternalistica con cui Martin apre la puntata del suo show televisivo (dopo due anni di editoriali, finalmente tocca al fumetto). Ma, soprattutto, è la sequenza colla medium a presentare inserti di continuità posticciamente eterogenei, tra "il Docteur Mystère che conosce Orloff" e Martin che è ancora fermo al #330. Rivelazioni che Martin prende con filosofia, limitandosi ad accusare l'imbonitrice nascondendole la droga in casa, e poi arrivando ad augurare la morte agli spacciatori. Il mix di questi elementi sgangherati è costruito con tale furbizia (l'autore, in fondo, è lo stesso che ha creato la nuova squadra ellegibitì plàs di Nick Raider) da portare la vicenda ad essere seguita per tutto il primo albo, sino al grottesco cliffhanger coi pupazzetti (che, tuttavia, col senno di poi, non inquieta manco per sbaglio e si rivela essere solo una parentesi clickbait). Esilarante l'apertura del secondo albo: dopo un moderno "prologo" in medias res, si è tramortiti dalla didascalona riassuntiva appiccicata sopra le vignette rimpicciolite. Questo a indicare che non si tratta affatto di una giacenza. Ma è una giacenza, dato che da questo punto in poi tutto scema nella solita azione da film americano di spionaggio, con Martin che ripete in continuazione di voler indagare, ma non comincia mai, e d'improvviso compie violazione di domicilio in tenuta da mercenario; con il mystero degradato a parodia (l'insider trading oltremondano, che è come gli avvocati del multiverso del #339, o le merendine di Lotti); con le parodie delle citazioni (l'attacco degli anziani al cantiere, copiato sia da film che da MM stesso); e con la conclusione che, per spaventarci, non conclude nulla e minaccia ulteriori prosecuzioni (puro jump scare). Ad avvalorare la nostra ipotesi di un'Altrove in Nero è l'accusa, buttata lì tra le righe, a Tower, forse a conoscenza della secret invasion e non intervenuto nella civil war (noi, comunque, preferiremmo avere torto e non saperne più nulla). Ma da dove vengono questi malvagi baccelloni invisibili? Dal Sondo del Mogno? Dallo Orizzonte degli Eventi? Martin ipotizza il Superspettro (Speciale #26 e #315), essendo la connessione tra i due casi meno logica. Del resto, senza la vicina suicida, senza Travis a consentirgli indagini private, senza la vecchia a mandarsi in coma da sola, senza Flip, senza la memoria fotografica di roboDiana, senza Java a mo' di giubbetto antiproiettile, senza lo yuppie autocommiserante, e senza il tacco di acciaio delle geox col quale sbriciolare l'hard disk (e dire che noi ne usiamo uno mezzo smontato da anni), il nostro eroe sarebbe rimasto a guardare una morta e due comatosi. L'arte accompagna tutto questo con la sua classe, la 5° B.


Martin Mystère #385: L'ombra di Michelangelo (Matteuzzi/Da Sacco)

Prosegue il "nuovo corso" mysteriano, che poi è quello vecchio che era affibbiato a Lotti, mentre ora viene sbolognato a esordienti o affini. Qui ne abbiamo due in colpo solo. La richiesta delle alte sfere è chiara: rifare storie vecchie fingendo che siano nuove, riciclando idee già sfruttate, magari sperando in un'imbeccata che permetta loro di essere ulteriormente sviluppate (ma questo finora non è ancora successo). Stavolta tocca a due "classici moderni" semidimenticati, quali Il segreto di Robin Hood e La pietra caduta dal cielo: dalla prima provengono gli alberi della conoscenza di origine ancestrale e cooptati dagli Uomini in Nero del passato; dalla seconda è copiato il finale in cui il cattivo si sparaflasha di onniscienza e crepa di overdose cerebrale. Non solo: dalla seconda proviene anche Le Centre, che proprio in quella storia esordì, e che qui è presente con due agenti social warriors che, però, tirano in ballo sempre Tower (per noi è giusto: è il Capo degli UiN, come fatto implicitamente notare anche dalla tiritera conclusiva: "anche lui sarebbe d'accordo" ad agire in puro stile UiN). Lo spunto, fornito da Castelli, è quello già usato nel racconto breve Lo Spirito di Raffaello (Speciale #37), il quale, a dispetto del titolo, si occupava più di Michelangelo. Lo sceneggiatore, ringalluzzito dal contratto con la major, sa di non poter sbagliare - anche se su MM i precedenti indicano che è richiesto il contrario - e, di conseguenza, va sull'usato sicuro, proponendo un canovaccio "turistico" a metà tra il Mystero Italiano degli anni 1990 e il raccontino promozionale. Eccoci, dunque, subito a Roma, subito con l'ennesimo compagno di studi coetaneo di Martin e altrettanto giovanile (e dire che proprio nello Spirito di Raffaello compariva il loro prof. di quando erano giovani), subito col mistero già mezzo risolto, subito con gli UiN all'attacco, subito con Martin pronto a scattare foto col cell e a bluthoottarle sul compiute, taac!, ed ecco subito il corposo flashback che subito svela gli altarini (letteralmente). Dunque, quello che nel raccontino era uno scherzone metafumettistico (la cosa della Creazione), qui assume più verosimilmente una connotazione storico-filosofica, con la scoperta di come Michelangelo si iscrisse alla Compagnia Nera e poi ne fu cacciato per intemperanze. A questa intuizione viene innestata la sottotrama dell'Albero dell'Eden richiesta dalla redazione, che non può che condurre in Turchia, a creare un virtuale teaser per l'importante albo successivo. L'episodio Ritorno all'Eden dell'Almanacco 1992 viene così cancellato, e l'Eden ricondotto alla solita Atlantide prevista dal contratto, badando bene ovviamente a non contraddire le altre Eden viste nella serie, visto che gli alberi debbono essere almeno sette. Matteuzzi si arrabatta come può tra l'esuberanza di chi vuole attirare l'attenzione e le pretese redazionali, sfruttando il ritmo accelerato dei fumettini fuori serie e diluendolo furbescamente con due flashback molto lunghi, confezionati all'uopo per non lasciare spazio a sparatorie e inseguimenti in auto (l'azione, invece, è presente nel passato!). La velocità rende inevitabili diverse forzature e sciocchezze: non solo Michelangelo e il suo superiore cospirano ad alta voce in un luogo dove l'eco rimbomba, ma le agenti di Le Centre fanno lo stesso in trattoria a Trastevere (introvabile), e poco dopo tutto il gruppetto ripete la cosa in aereo. "Fatece largo che passamo noi, sti giovanotti de st'Altrove bella, semo regazzi fatti cor pennello e la china, e li mysteri annamo a disvelà". Naturalmente, gli Uomini in Nero che agiscono nel tempo corrente della vicenda sono più inetti delle loro controparti positive, come ai tempi d'oro. Un episodio dal ritmo "topolinesco", ma con una accezione quasi positiva del termine, che ci ricorda vagamente un paio di classici di Massimo De Vita coevi dei primi MM, anche nei dialoghi meno piatti del solito e in piccole arguzie quali l'ingresso all'Eden a forma di serpente tentatore. La copertina cita quella del #1, ma con le pretese artistiche di quelle del #222 o #285: la realizzazione non è a quei livelli, ma apprezziamo l'impegno. L'artista si presenta con una prova anch'essa  figlia degli anni 1990, dal sapore industriale, tra momenti solidi ed altri rivedibili. Qual è la vera natura dei Neanderthal, accennata dall'Onnisciente in Nero? Dobbiamo per forza connettere questo indizio a quello del Cervello Quantico


Martin Mystère #386: I suoi primi quarant'anni (Castelli/Alessandrini,Orlandi,Torti)

Quarant'anni e sentirli tutti: così autori e personaggio si presentano all'invidiabile traguardo. Il mystero è stato svelato da tempo: lo ha detto Burattini, ma basta seguire Dylan Dog e in parte Nathan Never per rendersi conto di come l'Editore abbia chiesto alle redazioni di smaltire tutte le giacenze. Solo che per Castelli smaltire una giacenza è un'operazione oziosa, e deve necessariamente divenire l'occasione per fare qualcosa di diverso. Era già accaduto nei #373/374, e, oggi come allora, il riferimento era stato l'elenco programmatico del Gigante #12: tra le varie storie annunciate come di prossima uscita nel 2007 e dintorni vi era anche la genesi del famoso caso del "fantasma del Topcapè". Il prologo di questo nuovo albo è, infatti, illustrato da Alessandrini con lo stile degli anni 2000; uno stile già lontano dai tempi migliori, ma ancora solido; in seguito, emergono le imprecisioni dello stile degli anni 2020. Lo sappiamo: di fatto, gli unici albi veramente celebrativi ed autoreferenziali della serie - nella sua originaria incarnazione - sono il #241 e il #300. Successivamente, ogni pretesto è diventato buono per lodarsi ed imbrodarsi, e, di fatto, tutto l'universo mysteriano si è tramutato nella topolinesca caricatura metanarrativa di sé stesso. Sono, così, evidenti le difficoltà nel trovare nuovi spunti per farsi i complimenti: ecco perché questo quarto genetliaco ricicla elementi del primo (un mystero normale concluso scherzosamente), del secondo (la finta retcon dello status quo) e del terzo (un Martin "alternativo", secondo la definizione castelliana dello Speciale #37, in cui a ogni differente età Martin è "alternativo" a sé stesso). Non solo: le più recenti celebrazioni risalgono al '21, con la tripletta data dai già citati #373/374 e dal #375; da essi provengono l'ennesima riscrittura della realtà, sia endogena (cioè operata da Martin stesso) che esogena (frutto dei capricci di una creatura ancestrale e oltremondana). Naturalmente, la narrazione è quella tipica dei racconti brevi, il massimo che il Mahatma riesce ormai a gestire. Si parte, quindi, da premesse interessanti e godibili, intrecciate e sviluppate con talento ed esperienza (che è qualcosina in più del solito "mestiere"), ci si avviluppa da soli perdendosi in un bicchiere d'acqua, e si arriva al dunque con grossolano mestiere (sì, quello virgolettato prima). Uno schema ormai talmente consolidato, e funzionale quando la foliazione è davvero breve, da poter essere perdonato, tanto vi siamo quasi (quasi) affezionati. Ma insomma. Per rimanere soltanto al 2007 di cui sopra, i noi stessi di allora avremmo senz'altro guardato al bicchiere mezzo pieno: alla prima metà (e poco più) del fumetto, alla messe di nozionismo turistico e persino politico, al sempre irresistibile schema dei "racconti nei racconti", allo sfondo mediorientale (uno dei nostri favoriti), alle intuizioni salaci anche nei momenti più faciloni (pazienza se il collegamento tra Topkaki e Gobekli è tirato per i capelli, la sovrapposizione Dio/Djinn/Genio ci piace, anzi, è giusta), mettiamoci pure la sagace retcon della storia vecchia (come già Oak Island, anche il "fantasma" non è stato realmente tale); purtroppo, pure noi ci avviciniamo al quarantennale, e senza l'entusiasmo per i floppy di chi indossa fieramente maglioni a rombi. Di conseguenza, finiamo per essere infastiditi dalle numerose "topolineserie": i collegamenti di continuità errati (il caso del "fantasma" era avvenuto prima del 1982, l'Altrove a guida UiN bellamente ignorata) o tirati in ballo impropriamente (Amanda Janosz); la pretestuosità di certe forzature (perché il varco è nel Palazzo? "Boh, perché sì"; il Genio non esprimeva tre desideri? "Taci, sciocco"; e la parola "Djinn" compare solo nella rubrica); la conclusione esageratamente spaccona e sbrigativa (battaglia aerea nei cieli turchi, tutto insabbiato a parole, baci e abbracci); gli artisti usati mestamente come tappabuchi. E, curiosamente, è assente l'unica "topolineseria" che avremmo voluto, dato che tra i fumetti arabeggianti citati mancano proprio i Geni disneyani (di Gottfredson e del film d'animazione). E non è finita: se nel 2007 eravamo solo dei piccoli lettori speciali, o quantomeno allegati, in seguito siamo diventati pseudoautori; e questo episodio non soltanto rompe le scatole a ben due Get a Life!, ma anche al nostro ambizioso soggetto dedicato alle origini delle Mille e una Notte, che avrebbe voluto anche razionalizzare la Quivera dei #55/56. Fortunatamente, non lo abbiamo mai sviluppato a dovere, così dobbiamo cestinare soltanto una sinossi. Ma insomma, siamo al quarto o quinto soggetto cassato. A salvarci dalla depressione sono proprio l'argomento mediorientale e il trattamento al contempo dotto e surreale che Castelli gli applica: non siamo ai livelli irraggiungibili di Lawrence d'Arabia a Hegra, ma non possiamo resistere nemmeno allo Slumberland arabo e al Genio Demiurgo e Genius Loci. Alessandrini lo abbiamo già criticato: ma vogliamo ribadire che è l'unico artista che ci terremo volentieri fino alla morte. Orlandi illustra le paginette oniriche, mentre Torti spunta all'improvviso verso la fine, così, a mo' di cucùsettete. Facendo una media di pregi e difetti, l'episodio è senz'altro migliore degli scalcinati #373/374 e celebrativamente più  riuscito del #375. In fondo, il gigante Morales, con le sue riscritture e le sue storie arabeggianti grossolane, non aveva abbondantemente anticipato tutto questo?

DOC Robinson: Operazione Arca (Castelli/Ricci)

è la seconda versione del racconto poi divenuto il #3 della serie. La prima versione è quella pubblicata da AMyS un anno prima (nel 1981? No, nel 2021). L'incipit è differente da quello noto, che curiosamente ci stupiva per la sua inusualità (azione in medias res). Castelli ci fa sapere che, invece, il suo intento al tempo della creazione di MM, era proprio quello di rendere più dinamici e spettacolari i barbogi fumetti Daim Press. Per fortuna, "mestiere" ed "esperienza" ancora gli difettavano. Pochi anni orsono, Ricci ha realizzato una splendida illustrazione di Martin che porta a domandarci per quale diavolo di motivo non si possa riassumere nello staff.


Martin Mystère #375//386: Martin Mystère e il potere del Falco

è il romanzo in dodici puntate di Andrea Carlo Cappi, pubblicato nel corso dell'anno maggio 2021/aprile 2022. Una trovata che auspicavamo almeno dai tempi del Governo Monti e che è sopraggiunta con un tangibile ritardo, apparendo già quasi anacronistica e scontentando molti. Di questi ultimi possiamo anche fregarcene, non pubblicando noi la testata. Tuttavia, confessiamo che, leggendo le singole puntate a ragguardevole distanza di tempo l'una dall'altra, ci troviamo in difficoltà nel commentarne i dodici capitoli. Istintivamente, rammentiamo discretamente soltanto il capitolo metanarrativo con la rivista pulp fasulla (cioè castellianamente reale). La macrotrama si è rivelata, col passare dei mesi, tipicamente cappiana, con una prevalente dose di azione e spionaggio a scapito dell'elemento puramente mysteriano. Forse un passo indietro rispetto a La Pietra di Wolfram, forse persino ai due fumetti che Cappi sceneggiò con Pasini (uno dei quali prosegue in questo romanzo). Dovremmo rileggerlo interamente, ma non ne abbiamo il tempo, né tutta questa voglia.


MM #387: Lorem Ipsum (L.Barbieri/W.Venturi)

Entrati negli "'anta", ci si può lasciare andare al decadimento. L'equivalente mysteriano di birra gelata, canottiera e rutto libero è costituito da azione senza senso, mysteri inventati di sana pianta ed ennesima autocaricatura: il piatto viene servito freddo, per risparmiare sul gas (usato per suicidarci). Secondo riciclo in tre mesi per Il segreto di Robin Hood (Almanacco 2005): riecco il libro di narrativa di massa che rende ricco l'autore posticcio, ricreato sulla base di tecnobubbole atlantidee cooptate dagli UiN medievali. Gli sceneggiatori di MM si parlano fra loro o passano il tempo ad invidiare la vita economicamente agiata di Castelli? A quest'ultimo, è noto, non è che interessi molto il contenuto degli albi pubblicati; la forma invece sì, ed ecco che l'albo stesso diventa il suo contenuto: il frontespizio è sbagliato, nella sceneggiatura accadono eventi poco attinenti ai precedenti e ai successivi, il finale è ovviamente meta. Non è un delitto ricordare che, dietro ad alcuni Classici della testata, non si celino grandi mysteri ma soltanto pigre riflessioni: da Space Invaders ai primi Jinx alle barzellette eccetera. Ma è omicidio colposo, con l'aggravante della reiterazione del reato, costruire ogni episodio sull'ozio intellettuale. Ed è inclinazione naturale a delinquere ritenere che, se pigro è lo spunto iniziale, superficiale debba essere il mestiere impiegato per trasformare lo spunto in storia. Come in altre occasioni recenti, ci troviamo dalle parti del più piatto Topolino degli anni 1970-80, in un triste ibrido tra le astruserie di Siegel&affini e la piattezza dello Studio Program: cose prive di senso si susseguono sulla scia di dialoghi puerili e asincroni, con personaggi caricaturali che agiscono come in un cartone animato della Warner Bros [nell'ordine: c'è il demente dei sondaggi, poi gli analfabeti coi cartelli, citazione di un film non molto vecchio, quindi la notizia con le morti dei professori che rimane trama aperta, Martin non vuole leggere il libro, Java lo legge, Martin glielo strappa di mano e lo legge, Aaron lo chiama proprio in quel momento, il cattivo pure, questi è subito sgamato allora chiama al volo il rider dei libri, Martin giocherella col libro antico imprestatogli nello Speciale #38, irrompe una afroamericana che scompare subito e gli distrugge l'incunabolo (e vabbè pazienza), poi tocca alla tipa di Kill Bill, quindi ecco Lucy Liu, che ha il terzo occhio, e si accompagna a Erickson, che vive nel luna park abbandonato nel paesino col nome buffo, solo adesso Martin capisce che Lucy Liu è una Donna in Nero, breve nozionismo, l'unico possibile sul tema, con flashback ricostruiti con attori, quindi c'è da risolvere un codice come in New Atlantis, ma quello era un codice vero questo è inventato, lo si deduce da Erickson che non conosce i pianeti del sistema solare, scenetta di gelosia di Diana (invitata alla cospirazione) mentre Java lecca il lecca-lecca, stacco e assalto alla villa del cattivo, Java ferma Onofrio col lecca-lecca, il cattivo spara nel petto a tutti ma non becca nessuno, Lucy Liu non è davvero una UiNa ma ha falsificato il CV e vuole impadronirsi del libro magico per usarlo a suo piacimento, non come gli UiN che notoriamente salvano il mondo, Martin lo aveva capito subito, forse perché asiatica, e le aveva fatto il test trabocchetto (o le aveva fatto il test per capirlo, è uguale), Erickson imprigiona tutti, il cattivo è riabilitato, gli UiN fanno il contrario di Il ritorno di Billiken, Martin gli lascia il libro magico perché si fida di Erickson che assicura di averlo distrutto, ma non è vero, finale copiato]. Ora, se in ambito disneyano, in determinate situazioni, tale approccio può anche generare involontario e demenziale piacere, trovarselo in un Bonelli "ufficiale" lascia sempre un'impressione di artefatto: l'artista può anche trasformare tutti in cartoons - come accade in questo caso - ma questo non fa ridere, anzi intristisce. Ed è un peccato, dato che un fumetto con le premesse, per quanto fragili, di questo numero, poteva inserirsi in una tradizione mysterianamente consolidata negli anni 1990, ai tempi delle prime buffonerie (tipo La grande illusione; però, essendo le prime e precorrendo i tempi, non apparivano delle brutali idiozie). E sia chiaro che lo sceneggiatore in questione, scelto in quanto unico (o quasi) fra i redattori ad essere anche sceneggiatore (l'altro è Contro, ma l'ha preso Dampyr), nella disperata ricerca del "nuovo Burattini" (che è un po' come dire "agenda Draghi"), non ha fatto altro che prendere le sue passioni (l'editoria e il fantasy, è il curatore di Dragonero) e miscelarle (malamente). Ma insomma. Da parte nostra, potevamo scrivere tutto questo oppure "Diobuono" (frase riapparsa nei Dylan Dog recenti) e poi parole a vanvera. Ma, come si dice, de minimis non curiat editor. Sed lex, dura Tex. Terribilis est album iste. Comunque, vedere gli UiN "buoni" agire come Altrove corrobora la nostra idea di Tower capo occulto. E ci contraddiciamo: Martin che è entusiasta di collaborarvi è degno delle nostre parodie (e allora cosa critichiamo quelle altrui?).


MM #388: Fantasmagoria (Barzi/Orlandi)

Potremmo semplicemente dire che la rubrica di Castelli si apre con la - storica - gag delle "correggie" di Gaddi e della sua "abundanzia di merda", e quindi insinuare come lo stesso creatore della serie abbia fornito una chiave di lettura del fumetto postfatto. Ma preferiamo glorificare l'ingegno del Mahatma, che ha scelto di proseguire le celebrazioni di Martinsalemme con un albo particolare, composto di pagine bianche e intitolato come la rubrica. Che idea! In questo modo, ogni lettore può immaginarselo come meglio crede. Ad esempio, uno che di MM ha solo sentito parlare, potrebbe riempirlo con una trama nonsense e con personaggi autistici, che si dipana tra dialoghi demenziali ed eventi ridicoli. In questo modo, dopo gli albi "alla Siegel", ne avremmo uno "alla Fanton". Il lettore di destra, che odia i rivoluzionari e li ritiene tutti indistintamente sanguinari criminali, calcando la mano sul tema, sarebbe soddisfatto, e con lui avrebbe di che godere anche l'appassionato di drammi emotivi da telenovela sudamericana ("roba che neanche Morales...", cit.), e persino a quello che non ritiene che i viaggi nel tempo sminuiscano la serie non resterebbe che leccarsi i baffi. Tutto questo, va da sé, non avrebbe motivo di essere disegnato bene, e dunque perché farlo? Un lettore dalle caratteristiche opposte alle succitate, invece, sognerebbe qualcosa di completamente diverso; ma, a conti fatti, si trova comunque a dover leggere un albo capace di far rimpiangere il famigerato Fantasmi a Malta. E a subirne il terrorismo cerealifero, proprio adesso che fa la dieta. E allora il prossimo che dice "immagina, puoi" lo ghigliottino.


MM #389: L'arma di Sansone (Matteuzzi/Foderà)

Fumetto demenziale, ma intriso di una sua laterale cultura, sulla falsa riga dei visionari dei tempi d'oro: Prosperino, Chiavecchioli, SegnaMerraVidda, Pedalini, Palombetti. Perché guardare a Castelli e Recagno, quando ci si può rifare a questi? L'intreccio tra Etiopia e Giamaica magari non frutta un dottorato, ma è simpatico, e sembra avere una sua coerenza interna; mentre che lo strumento musicale, nella realtà peruviano, sia quello di Sansone, è un'invenzione dell'autore; a questo punto, però, si poteva pure tirare in ballo l'arma di Caino, mica ci offendevamo. Se le basi hanno una parvenza di logica e dignità, e possono persino ispirare piccole riflessioni estemporanee, il canovaccio scelto per esporle è invece grottesco e caricaturale. Fin da subito, quando una scenetta da commediola disneyana (anche nei dialoghi) permette a Martin si lanciarsi all'avventura veramente per puro istinto, senza uno straccio di motivo valido. E la farsa prosegue poi con i tre rastoni di mezza età che articolano i flashback fantastorici in modo confuso, tanto che è lo stesso Mystère a farlo notare (eppure, la confusione dovrebbe essere il suo pane quotidiano): la vignetta in cui la mandibola viene mostrata - così, di botto - come un aggeggio tecnologico dall'aspetto anacronistico e futuristico, insinua il sospetto di una revisione in corso d'opera del soggetto e di una decurtazione dello stesso; in alternativa, è solo indice della confusione dell'autore. Ma il bello arriva dopo, quando, dopo le magie di Travis Anonymous Travis, l'ottuagenario presentatore e divulgatore sventa un colpo di Stato in un Parlamento realmente esistente in diretta televisiva, e poi la sfanga tranquillamente. Pensa se avesse combattuto Hitler nella WWII come Topolino, che dicevano i lettori. Per chiudere in bellezza e coerenza, Mystère decide di non distruggere la potente arma dalle origini ignote, ma di consegnarla ai suoi amici governativi, che, coerentemente, ritirano il pacco abbigliati interamente di nero. Come già accaduto per le pietre cantanti e la tv alchemica, una simile messe di discombabulazioni non poteva non ispirare uno, due, tre, tutti gli spin-off di Get a Life! che la Fantasia di un Tardigrade può generare; e un giorno, forse, anche i legami tra Sansone e Dagon verranno approfonditi. Finalmente esordisce un artista con un minimo di carriera alle spalle, peraltro di discreto livello: per non tirarsela, però, si traveste da esordiente e si lascia andare ad anatomie talvolta discutibili. Nella rubrica, Castelli si augura che i rasta si lavino i capelli, mentre questo romanzo di Cappi, a differenza del precedente, continua a non generare incroci tematici col fumetto, apparendo come un corpo estraneo all'albo; ma almeno questo episodio è decente.


MM Special #39: Il dado è tratto (Lotti&Mainardi/W.Venturi)

Pur concettualmente conclusa da anni, la collana Special continua ad essere pubblicata a fini statistici e in una versione degradata, sulla falsa riga dell'Unità negli ultimi tempi. L'episodio portante è però di foliazione mensile (78 tavole) ed è praticamente uguale al recente #382 natalizio (e il colore dello Speciale #38 è già stato tagliato dalla spending review, dunque senza ristampa sarebbe come un mensile senza rubriche ma col flip book). Da cui la domanda: fu quell'albo concepito per essere un extra o fu questo ad essere concepito per essere un riempitivo della collana-madre, o semplicemente entrambe furono concepite in modo standard, così da poter essere pubblicate alla prima occasione utile? Quel che ci importa è che, purtroppo, il concepimento c'è stato. Non è uno scandalo uno Special non sceneggiato da Castelli e Recagno: anzi, tra gli albi più amati dai Nipoti di Mystère c'è proprio l'episodio sceneggiato da Lotti e Pasini: qui Pasini non c'è, ma è un pasino lo stesso; che paos! Lo stesso Martin, ricordando il memorabile #382, lo definisce "strampalato"; d'altronde, è solo all'inizio di quest'altro e non può ancora averlo letto. Grazie al lavoro fatto dagli autori di Get a Life!, l'idea che Dampyr sia divenuto l'erede di MM comincia lentamente a farsi largo; ed ecco che il flashback è ambientato a Praga, alla corte di Rodolfo II, con i "veri" Dee e Kelly; ed ecco che l'editoriale subito ci svela tutti i colpi di scena, come un editoriale dampyriano. Quindi sappiamo subito che il deux ex machinae è Abramo Colorni, il mantovano che lavorò a quella corte, e che il McGuffin è lo stesso di Martin Mystère & Il Grande Zirmani, il Vril a forma di dodecaedro (la prima cosa che venne in mente allo sceneggiatore di quel fuori serie, associando un paio di vaghi ricordi). Il resto è farina del dinamico duo: sono i due autori odierni ad associare visivamente il dodecaedro al dado dei giochi di ruolo, e quindi ad attribuire a Colorni l'invenzione di un gioco di ruolo magitecnico ante-litteram. Questo è programmatico alla prossima pubblicazione del Gioco di Ruolo di Martin Mystère, come Dante si è lasciato sfuggire "sbadatamente" sul forum, ma non è sufficiente a riempire le quasi ottanta pagine. Fortunatamente, la collana Special si caratterizza, da sempre, per la sua forte impronta sarcastico-satirica, e d'altro canto Il Mondo di Escher divertì tutti con le buffe gag di Tower in vacanza, quindi basta trasformare tutto in un cartone animato e la storia è fatta. In fondo, vedere Martin impersonare Sam Spade, Lord Greystone e Don Chisciotte (nei vari set del gioco) non è certo più inusuale di vederlo indagare seriamente su di un mystero non inventato di sana pianta (anzi, questo sì che sarebbe strano). Ogni Martin è "alternativo", ha spiegato Castelli un paio d'anni fa, dunque ognuno può farne quel che più lo aggrada ("lo" è l'autore, non Martin). L'artista casca a maccherone come cacio sui fagiuoli per una vicenda "strampalata" come questa, con il suo stile cartoonesco e caricaturale, che a noi continua ad apparire estraneo ai propositi originali della serie, e lontano anche dalle sfumature meno seriose di Alessandrini e Torti, ma che certamente è utile quando si vuol rendere Angie una bimba dagli occhi da cucciola e dalle tettone siliconate, tirate fuori davanti a chiunque, o Martin la parodia di sé stesso, o Dee e Kelly due Animaniacs.  

MM presenta #18: Il Faraone ritrovato (Recagno/Orlandi) 

Il centenario della scoperta della tomba di Tutankhamon (cui è dedicato la breve "Fantasmagoria" fuori serie) è l'occasione per riempire altre sedici pagine con un altro fumetto impostato come un Get a Life! (versione breve): non un racconto, ma un racconto; cioè non una storia, con inizio svolgimento e fine, ma un autore che espone la sua tesi, come nel contenuto extra di un Dvd. In questo caso, lo sceneggiatore si toglie finalmente lo sfizio - e così facendo, lo toglie anche a noi - di ufficializzare la storia pubblicata sui #184/187 di Mister No. Ogni mysteriano la conosce da sempre: si tratta del famoso cross-over del 1990 con i MM #104/106, con il celebre doppio segreto dei seguaci di Amon. Eppure, ogni mysteriano, a quanto pare, l'ha sempre conosciuta soltanto di fama, e del resto, la stessa storia, fu menzionata solo nell'Uomo chiamato Mhosis. Si è poi scoperto che molti lettori speciali ignoravano quale fosse l'altro segreto - oltre all'Arca - degli Amoniaci. I presenti estensori, invece, conoscono bene la vicenda mozzafiato, capace di anticipare l'Isis di decenni e conclusasi con l'entusiasmante discesa di Mister No nel labirinto iniziatico, fino all'incontro con l'immortale Akhenaton (il segreto è quest'ultimo). Recagno propone, finalmente, questa nozione mysteriana, rimasta esclusa dalle pubblicazioni intitolate a Martin fino ad oggi, in un albo intitolato a Mystère, e per l'occasione offre a tutti la sua soluzione all'enigma della morte del figlio di Ekhnaton. Lo fa elidendo tutte le tappe narrative, semplicemente esponendo la tesi in flashback, mentre Martin fa nozionismo davanti ad Aaron (a cui è chiarita finalmente l'origine del nome, con un'altra associazione da sempre alla nostra portata, ma mai evidenziata nel fumetto). Lo stile di Orlandi è ancora lo stesso dai tempi di Lazarus Ledd: difetto o pregio? Non sapremo mai dare una risposta di tale portata. 

Visti i tempi, la riproposizione di Il Documento Lambda (Castelli/Crivello) appare quanto mai opportuna, se proprio si deve riproporre qualcosa. Certo, il fumetto è offerto scorciato dei camei "divisivi" e presentato enfaticamente come un divertissement immaginario da non prendere affatto sul serio, guai a noi se ci permettiamo. A dire il vero, è tirato in ballo soltanto perché vi compare la Crimea. Ma tant'è, il dado è tratto.    


MM #390: Cronache Marziane (Recagno/Grimaldi)

Sì, GaL, sorreggi Cristiàn. Da non crederci: finalmente un albo dignitoso. Non bello: c'è molta compressione e le parti migliori sono ancora prologhi di storie aleatorie, promesse che chissà se e quando verranno mantenute. È lo stesso errore commesso dal Nathan Never di Vigna, per un lustro - prima di diventare egemone - distillato con straziante vacuità tra decine di giacenze mediocri, con l'aggravante, per Recagno, dei quasi 5 anni tra Il matrimonio di Sergej Orloff e Le ombre di Camelot e dei 3 tra quest'ultimo e Come ai vecchi tempi che ancora devono esserci restituiti; praticamente nel frattempo è tornato Berlusconi, diteci voi se vi pare normale. Ad ogni modo, ci siamo: un episodio non avvilente fin da subito e che non sbraca sul più bello, capace di mantenere una sua dignità dall'inizio alla fine; un fumetto privo di inaccettabili idiozie, di dialoghi autistici e di scenette ridondanti; un albo che tratta di "grandi enigmi" e di questioni probanti e non di minchiatelle oziose o mortificanti. Quanto ce lo siamo sudati, quante umiliazioni ci sono state inflitte, quanta pazienza abbiamo dovuto avere. Certo, è un episodio del Nuovo Mystère, quello atemporale e riveduto&corretto dalle retcon aziendaliste: ci sono i Kundingas portatori di Doni e personaggi di età avanzata che nel 2022 sono identici a come erano nel 1995 (oltre ai protagonisti, intendiamo). Ma ci passiamo sopra: intanto, già solo rivedere i Rosa+Croce ci ha galvanizzati; quanto li abbiamo aspettati; certo, già in Contrappunto, scherzo e fuga la parola Rosa+Croce era accennata solo una volta, ora ce la possiamo tranquillamente scordare (sebbene la rivista sia ancora del Rosicultore). L'autore compie comunque una scelta azzeccata, mischiando questi tizi con le Colombe in Nero del Libro di Sabbia e inventandosi l'etichetta di Uomini in Grigio per spezzare il bipolarismo fasullo Altrove-UiN. Era ora. Ci voleva tanto? Boh. Dal #376 ritorna, poi, il nuovo status quo che vede Orloff agire secondo fini ignoti in parallelo alle remote vicende di Amaterasu. Rispetto al precedente episodio, però, dove i concetti erano stati espressi pigramente, senza sapere bene come occupare le pagine, stavolta l'autore sembra avere le idee chiare e la voglia di provare ad imbastire un discorso. In confronto ai classici del passato, il "caso verticale" (peraltro spoilerato dalla copertina) appare stringato ed elementare, ma dotato di un suo senso: la vicenda della ribellione nella base scientifica isolata non è riconducibile alla mera presa per i fondelli dei tantissimi complottisti speciali, ma è inquadrata nel discorso alla base dell'intero fumetto, sia ai tempi muviani che a quelli odierni: l'impossibilità di scindere correttamente tra realtà e fantasia - l'antitesi della filosofia dei redazionali! - in un mondo, da sempre, oggi come ieri, conteso tra chi manipola a suo uso e consumo e chi vorrebbe fare altrettanto (oppure non vorrebbe ma è costretto a farlo reattivamente). Dopo DIECI ANNI, dunque, ritornano i concetti di Congiura nei cieli, l'unico albo realmente innovativo del Mystère dello scorso decennio. Allora, l'universo mysteriano appariva ancora credibile, oggi è leggibile solo alla stregua di quello disneyano. Ma all'interno delle 78 pagine la compresenza complementare di Orloff, Spade, Amaterasu, Satiri marziani, poteri forti, viaggi spaziali e sedute spiritiche, arricchita da inedite connessioni (i Tecnomanti Pan), ricrea, per qualche istante, quella sensazione di sincretismo che aveva decretato la trentennale fortuna della serie tra noi sincretini. Tutto funziona, per il momento, senonché il patto narrativo assume - di nuovo - la natura di una cambiale in bianco: per sapere come Orloff andrà su Marte e cosa mostrerà l'Aleph, occorrerà l'ennesimo atto di fede nello sceneggiatore. Lo stesso che ci ha appena insegnato a diffidare di tutti (eccetto i virologi). L'artista scelto in virtù delle sue collaborazioni passate non è il più adatto ad illustrare questo ciclo, rendendolo più asettico del richiesto e faticando molto ad indovinare la fisionomia degli asiatici. Per bilanciare un fumetto complessivamente azzeccato, Zio Boris intristisce e il romanzo di Cappi tergiversa inutilmente: dagli e dagli, siamo riusciti ad avere Tex Mystère.


La Lettura #559 del 14-08-22: Supereroi di mezza età (Priarone/Leandri)

Due paginette psichedeliche che omaggiano Martin e "L'incredibile Hulke" (cit.), forse ricordando quel vecchio racconto breve lucchese, più probabilmente no. Non ha molto senso, però è sempre pubblicità aggratise. Nel 2021 ne era stato realizzato uno con Zagor e Spaidermen.


MM #391/392: Panarmonicon/La casa meccanica (Eccher/Vercelli)

Gli sbalzi umorali del Mahatma, che in un albo ci ordina perentoriamente di votare e nell'altro rimpiange la morte e celia sul costume italiano, ci regalano una nuova avventura in due puntate, che non è affatto da considerarsi una giacenza del bimestrale: d'altronde, nessuno lo ha mai confermato esplicitamente, quindi dev'essere vero. Fumetto meno tragicamente irritante e fastidioso di tanti altri che abbiamo dovuto subìre, è comunque una lettura elementare e disutile, ma si avvale di quei concetti che fanno la gioia del Mahatma di cui sopra: ritornano gli automi ottocenteschi, rendendo l giocatore di scacchi (più volte menzionato) quasi obsoleto (come se già non lo fosse), e quindi i flashback coi parrucconi, e l'IA meccanica si riduce ad una casa impazzita tipo Paperino di Pezzin e De Vita. Narrazione e arte viaggiano di pari passo, alternando - sia in termini di ritmo&dialoghi che di visualizzazione - momenti discreti ad altri (ormai tipicamente) dozzinali. L'arte è certamente in disfacimento, indecoroso ed irrefrenabile, però qualche vignetta riesce a ricordarci i tempi che furono, o semplicemente a rendere l'effetto scenico che voleva creare: pensiamo soprattutto alle panoramiche della casa nella notte in tempesta, o a certi, selezionati, primi piani dei protagonisti fissi. Lo sceneggiatore non ha molto da dire, e dunque, per tirarla per le lunghe, si affida ai mezzi tecnici di cui dispone: i flashback, gli stacchi, i depistaggi. Il lettore lo segue sapendo già dove andrà a parare, ma, essendo speciale, spera anche questa volta di sbagliarsi, e quindi non interrompe la lettura. Dietro al Panarmonicon, è noto, non si cela alcun mystero con la iuppsilon, come non se ne celavano dietro al "Turco Scacchista", e quindi la tradizione è rispettata: l'idea che, in entrambi casi, si nasconda un'Intelligenza Artificiale ante-litteram, è farina degli autori. Quella di Castellotti era atlantidea, questa è puramente meccanica, di proprietà di un personaggio di fantasia, che, nelle intenzioni originarie, avrebbe dovuto interagire con personaggi storici (Leschot e soci); ma gli eredi di questi avrebbero potuto offendersi (in Austria e Svizzera MM è un bestseller), e i loro nomi sono stati modificati topolinescamente. Della prima puntata restano il nuovo storico amico di Martin e famiglia, il riccone collezionista di automi, e la memorabile sequenza in cui Martin e J.Java, sull'auto a noleggio, sfondano due auto della polizia svizzera, chiedendosi come faranno a scamparla. Memorabile? Ah no, scusate. Nella seconda puntata Martin è chiuso nella casa maledetta per tutto l'albo, e alla fine se la ride col suo amico e il superstite privato d'un braccio. Evidentemente T. Anonymous T. agisce anche fuori scena. Tutta la sequenza nella magione degli orrori non va oltre il filmetto horror che intrattiene quel tanto che basta per non esserne disgustati, ma che non si avrà la voglia di rivedere, e peraltro la varietà di automi proposti è estremamente limitata: c'è quello col cannone, quello che spara fuoco e quella con le lame roteanti. L'autore si sforza sovrumanamente di rendere credibile che un complesso di ingranaggi possa sviluppare un pensiero senziente, e tutto sommato possiamo anche accettarlo, a patto di ricondurre al raziocinio certe superficialità dei vecchi classici (il televisore con l'amuleto magico dentro, per dirne una). Ma certo potevamo farne a meno. Per tranquillizzarci, Mystère ci spiega posticciamente che gli eventi del #390 non lo hanno turbato più di tanto. E chi si preoccupava, zìo?


MM #393: Il Talento di Stradivari (Perniola/Cipriani)

Mystero Italiano in puro stile anni 1990, con le bevute nel paesello, la Bassa Padana, i dialoghi da sceneggiato televisivo, un mystero non inventato di sana pianta ma comunque turistico e poco ambizioso, una robusta dose di nozioni annacquate nel solito intreccio finto giallistico, "svolte narrative" infantili tipiche di chi si è fatto approvare il soggetto durante una cena di gruppo, arte industriale ma almeno guardabile. E una copertina simpaticamente stravagante, oltre che spietatamente spoiler di tutta la trama. E quindi le due casalinghe sono streghe, ma per Martin non è insolito, così come l'Om Salvàdagh: capirai, dopo il Green Man del #349, perché dovrebbe soprendersi? A noi, però, sorprende che se ne ricordi. Va detto che dei Sasquatch del Nord Italia se ne parla (su MM) almeno dalle rubriche degli anni 1980: magari si poteva dedicargli un episodio un po' prima di quarant'anni dopo. Naturalmente, Stradivari non poteva essere morto come Storia comanda: doveva diventare un mostro ancora vivo nel secolo seguente (ma non in quello ancora dopo). Ma insomma, Martin ha biciclettato sul Po e Java ha munto la mucca: di più, davvero, non potevamo chiedere a questi signori. A Castelli poco cale di tutto ciò, mentre è genuinamente divertito dall'idea della variant cover e dall'uscita anticipata per Lucca Comici End Giuochi, tanto da dedicarvi editoriale e Boris. Intanto, scopriamo che esistono almeno altre due giacenze nei cassetti della Redazione. E allora, forse, invitare ripetutamente a cena il Direttore Editoriale per scucirgli qualcosa non è un'idea tanto peregrina. 


MM #394: Allarme Rosso (Lotti&Mainardi/Forlini&Avogadro)

Ogni buona azione non resta impunita: l'ancestrale passione di Castelli per le confezioni degli albi natalizi si è riverberata sul mondo di Mystère in una serie di episodi dapprima classici, in seguito innocui, infine tristi. È la medesima parabola che, in fondo, ha colpito la stessa festività, improvvisamente divenuta "cult" negli anni 1980 ed oggi insopportabile per chiunque. Chi scrive arrivò addirittura a trovare calorosa ed accogliente una roba come Magico Natale (MM #306), solamente perché allora in pieno lutto; oggi, invece, ha pure perso la ventennale voglia di rileggere i Disney a tema durante le feste. Da par suo, del tutto sconnesso dalla realtà, l'universo narrativo di Mystère ci propone nientemeno che il "bis" dello "Speciale Natale" dell'anno prima, in cui Angie ripiomba a Uoscinton Miùs Tre con una nuova stramberia da risolvere. Stavolta, a differenza del #382, il "mystero" non è un abominio nonsense partorito durante una seduta digestiva particolarmente molesta, ma poggia su uno dei tanti pilastri della cosmogonia mysteriana non ancora ridestrutturata da alcun bonus (malus, cioè maloox): gli autori, non si sa bene per quale motivo (forse è un omaggio a Umperio Bogarto del collega Badino), cercano fino all'ultimo istante di tenere segreta l'identità del tizio dietro le quinte al caso da risolvere, ma, se si hanno più di sei anni, pare chiaro fin da subito che il "colpevole" sia proprio quello de Il Virus Elettronico (MM #80/81) e che le misteriose visioni di "elementi volanti tratte dalle varie mitologie" siano coperture olografiche per le "slitte" di quel signore. Il tizio in questione, ai tempi d'oro, si presentò con nome e cognome e ci narrò le sue meravigliose e verosimili origini; oggi preferisce non fare nomi e, in doppiopetto come in un fumetto di Corrado Mastantuono, ci mostra la sua flotta di motoastronavi presa da una vecchia storia di Indiana Pipps (ma non avevamo detto che non rileggevamo più quella roba?). Non solo: se una volta il filantropo si accompagnava a ometti travestiti, ora pare circondarsi proprio di elfi, forse per accentuare il realismo di quella storia fantasiosa, in cui addirittura c'era il teletrasporto. O forse è il contrario: siamo nel '23 e ancora ci dà fastidio quando ci dicono di non usare le auto a benzina, il teletrasporto non è più credibile; ben vengano dunque delle astronavi radiocomandate, rese invisibili tramite ologrammi e falsi ricordi indotti nei destinatari. Una volta tanto, a Mystère non avevano cancellato i ricordi, al termine della storia vecchia; ma sarebbe stato banale ricordarsela, e Mystère detesta essere definito in quel modo, dunque se l'è dimenticata di sua sponte, per farci un dispetto. Tower, invece, ricorda bene il #382 e stavolta si fa trovare impegnato in un'altra missione; lo sostituisce Brody, che convoca Martin in una succursale di Altrove per chiedergli se la ricostruzione arbitraria e teorica dell'astronave che il suo software ha fatto può ricordargli qualcosa di atlantideo o muviano: non è sarcasmo, è proprio così. Chiaramente, agli autori interessava solo la credibile gag di Martin e Java travestiti da Babbi Natali per eludere eventuali spie, che però poi, si scopre, "evidentemente non sono cadute nel tranello" (cit. MM), e infatti si fanno trovare tutte all'appuntamento, in una eco del glorioso finale del capolavoro Il Tesoro di Didone dell'immortale, o quasi, Morales (questo di Lotti, però, è più credibile, tanto per rendere l'idea). Un fumetto infantile, in cui "tutti spiano tutti" (cit. Brody) e Altrove ha sotto controllo ogni dato registrato in qualunque database, ma non ha ritenuto di dover tenere conto del rapporto stilato dal pilota, perché non ha detto di aver visto Babbo Natale ma semplicemente un oggetto volante non identificato, e quindi non poteva essere correlato agli altri avvistamenti verificatisi nel medesimo istante. E in cui in Groenlandia c'è un fitto bosco (ma di questo non teniamo conto, perché lì c'è anche un canale di video comici per adulti: se è reale quello, lo sarà anche il bosco). Entrambe le arti sono note per la loro rigorosa industrialità: qui si presentano mescolate e difficilmente distinguibili, forse per via dell'approccio cartoonesco e "fumettoso". Degna di menzione la rubrica, in cui Castelli elenca i mostri legati al Natale, compresi quelli protagonisti del Dampyr in edicola contemporaneamente, indegno di pubblicità. 

 

(2021-2023)